Afghanistan – Missione (in)compiuta

Afganistan Missione

Non è ancora chiaro quale tipo di strategia sia stata pianificata dietro il ritiro dell’alleanza militare a guida USA dall’Afghanistan. Un ritiro che era stato anticipato da Donald Trump a fine mandato e che faceva parte del suo programma elettorale come impegno di “chiudere tutte le guerre senza fine”, principalmente quelle in Iraq, Afghanistan e Somalia.
Allo stesso tempo Trump ha criticato duramente l’operazione di ritiro allestita dal governo di Joe Biden, che, secondo l’ex presidente, è stata imbarazzante e umiliante per gli USA, avvenuta in modo repentino e caotico, senza che le autorità americane abbiano stabilito in anticipo condizioni chiare e rigorose per la gestione post occupazionale del paese. Occorre forse ribadire, anche in questa sede, la palese differenza nell’abilità contrattuale e diplomatica fra i due capi di Stato, dove è evidente come l’attuale presidente si muova più sull’inerzia delle sollecitazioni dei consulenti che per volontà e risolutezza proprie.

Ciò non esclude l’eventualità che il ritiro sia stato anticipatamente concordato non con qualcun altro ma proprio con la Russia, e che questo sia avvenuto durante il vertice bilaterale di Ginevra a giugno 2021. Poco dopo l’imbarazzante esternazione con cui Biden definiva Vladimir Putin un “killer”, segnando in questo modo i minimi storici nei rapporti fra i due paesi, i due capi di Stato hanno avuto dei colloqui costruttivi, con “toni positivi” e “lampi di speranza”. Da canto suo, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, partecipe al vertice insieme al suo omologo Antony Blinken, è stato quello che con più tatto e abilità aveva condotto negli anni precedenti dei negoziati ufficiali con i rappresentanti del movimento dei Talebani, accogliendo le loro delegazioni a Mosca, nonostante rischiasse di essere accusato in azioni fuorilegge, essendo l’organizzazione talebana bandita dalla legge russa come minaccia terrorista. In realtà per la Russia è vantaggioso mantenere un dialogo diretto con i talebani nel momento che quest’ultimi si oppongono al ben più pericolosa organizzazione terroristica internazionale dell’Isis (fuorilegge anche quella), conducendo con successo aspre battaglie. (Per esempio, nel 2018 i talebani hanno distrutto e liberato il nord di Afghanistan da una pericolosa enclave di Isis, dove alcuni terroristi sono riusciti a fuggire grazie ai militari americani, così come si sono impegnati contro altre organizzazioni terroristiche come Nusra e Al Queda, infiltrate sul territorio afgano.)  Non per caso la prima azione politica che i talebani hanno voluto dimostrare nella quasi immediata occupazione di Kabul è stata quella di fare visita ufficiale e di garantire la protezione all’ambasciata russa, così come a quella cinese: un segnale più che chiaro di chi saranno i futuri garanti e interlocutori geopolitici dei nuovi governanti di Afghanistan.

Quello che la narrazione mainstream occidentale, impegnata nella rappresentazione della crisi umanitaria e il psico-dramma dell’abbandono, omette volutamente di rivelare all’opinione pubblica è che l’occupazione di Kabul da parte dei talebani è stata inaugurata da gran parte del popolo afgano come un’avvenimento di salvezza; un popolo che aspettava i talebani con una nuova consapevolezza, stanco non solo dalla lunga presenza di occupazione straniera, ma anche da un governo fra i più corrotti al mondo. E’ vero che “l’esportazione di democrazia” fa sempre leva su governi locali deboli, corrotti e ricattabili, ma l’episodio in cui il presidente in uscita Ashraf Ghani scappa con l’elicottero privato rimpinzato di dollari prelevati direttamente dal tesoro (pare siano 169 milioni, diretti probabilmente in Oman) è una scena senza pari. Eppure alcuni si ricorderanno come sette anni fa i media occidentali facevano vedere immagini di afgani in fila sotto la pioggia per votare democraticamente per il loro nuovo presidente in ballottaggio. Una buona parte del governo collaborazionista non ha fatto altro che arricchirsi e rubare sulle spese del popolo afgano, reggendosi su uno scarsissimo consenso costruito prevalentemente su politiche di pari opportunità fra generi, ed è probabile che ex governanti saranno processati e puniti dai talebani per corruzione e alto tradimento.

Per quanto riguarda il profilo politico dei talebani, non è un segreto che essi vengano istruiti e formati nelle scuole coraniche pachistane (di tradizione sunnita) e coordinati e finanziati dai servizi segreti pakistani, e che al Pakistan come garante essi devono anche il loro riconoscimento internazionale da parte dei paesi confinanti. Ma forse pochi occidentali sapranno che i talebani si oppongono fin da sempre al commercio di narcotici. Nel 2000 hanno imposto un divieto alla coltivazione del papavero da oppio, dal quale si produce l’eroina. Come risultato, nei territori controllati dai talebani, la coltivazione del papavero è quasi cessata e la vendita di eroina nel mondo è diminuita del 65%.

A sua volta, dopo l’insediamento degli USA, l’industria afgana dell’oppio, che i talebani avevano messo in ginocchio, è stata ripristinata, organizzata e sviluppata sotto la guida dei servizi americani, passando dal 6% del 2001 al 93% del mercato mondiale del 2007. I dati del 2017 segnano un record della produzione annua di 9000 tonnellate di oppio, mentre nel 2020, nonostante l’emergenza pandemica, le tonnellate sarebbero solo (!) 6300.

In realtà, tutte le guerre imperialistiche sono cordate di affari e le “guerre anomale” lo sono ancora di più. L’occupazione dell’Afghanistan doveva trovare per l’opinione pubblica delle validi motivazioni ufficiali (infatti, “la lotta al terrorismo” funzionò benissimo, anche se i talebani non c’entrano nulla con l’11/9)  per nascondere la vera motivazione della loro occupazione: nella classifica dei narco-Stati, gli USA sono il primo, perché consumano circa il 50% della produzione mondiale di droga, ma controllano i traffici in modo diretto e indiretto in ogni parte del mondo. Il totale fallimento della cosiddetta “guerra alla droga” è stato in realtà un formidabile successo. Ancora nel 1973 Alfred McCoy spiegava nel suo libro (“La politica dell’eroina”) con un’ampia documentazione come la diffusione delle droghe sia stata sempre gestita dai vari servizi segreti, la Cia in primis, dove i benefici da trarre non sono solo economici, ma anche in termini di controllo capillare dei territori e dei governi locali con la premessa della lotta al narcotraffico. McCoy illustra l’importanza storica del traffico di droga per i paesi occidentali, a partire dai portoghesi e poi i francesi in Indocina, proseguendo con gli inglesi in India e infine con gli americani nel Vietnam e in Afghanistan, dove i colonizzatori riescano a compensare gli enormi costi delle imprese occupazionali, non sempre redditizie, con i proventi della droga. Tra l’altro, un paese destabilizzato in modo permanente come l’Afghanistan offre ampie possibilità di triangolazioni finanziarie per il lavaggio di denaro sporco, come segnalava Julian Assange già 10 anni fa.


A questo punto è lecito chiedersi se il bilancio fra spese occupazionali e ricavi dal narcotraffico sia stato conveniente o meno per i servizi americani, visto che la missione ventennale è costata comunque agli USA 2300 miliardi di dollari, compreso l’addestramento e la formazione di truppe armate afgane, che però in pochi giorni si sono liquefatte, consegnando il potere ai talebani, il che per i servizi americani vuol dire vedersi tagliare ogni possibile canale con il mercato dell’oppio afgano da ora in poi.

Forse l’oppio non è più una fonte di introiti così importante, e magari potrebbe essere soppiantato da altre priorità? Si potrebbe anche presumere che i talebani tenteranno di utilizzare inizialmente il traffico di droga per finanziarsi, evitando in questo modo di farsi mettere contro i produttori locali, ma senza i canali criminali sorvegliati dalla Cia non faranno tanta strada. Ai talebani spetta senz’altro il difficile compito di rimpiazzare l’industria dell’oppio con altre fonti di lavoro e di reddito per i produttori locali, il che rientra nel più vasto quadro di una nuova pianificazione dello sviluppo economico del paese, cosa non facile per una società a costituzione tribale. Un compito politico importante che non potrà fare a meno dell’apertura agli investimenti esteri, da intendersi oltretutto investimenti cinesi, comprensivi del passaggio della BRI (Belt and Road Iniziative) dal territorio afgano. Su piano economico è prevedibile che la Cina sia pronta ad intervenire in Afghanistan sia direttamente che attraverso il Pakistan, il primo alleato dei talebani che ha in Cina il suo più grande partner commerciale. Inoltre, l’Afghanistan dovrà riuscire a far valere nel migliore dei modi non solo la propria posizione geografica ma anche le proprie ricchezze geologiche, ancora poco esplorate ma promettenti di rame, litio e altri metalli preziosi. E tutto ciò senza farsi occupare in modo pervasivo dalla Cina, visto che i talebani sono piuttosto intolleranti verso presenze straniere.

 

Ritornando alla questione di quale strategia potrebbe celarsi dietro un ritiro avvenuto con modalità poco convincenti, diventa evidente ancora una volta come la potenza mediatica dell’informazione occidentale riesca a trasfigurare totalmente la realtà. Essa è stata quasi esclusivamente ripiegata sulla comunicazione della crisi umanitaria, il dramma dei profughi, i loro gesti di disperazione, la loro aspirazione e i loro diritti di trovare apertura e ospitalità nei paesi europei. Tutto ciò per mantenere la narrazione di un Occidente salvifico e di superiorità morale, quando, secondo fonti della stessa ONU, durante il regime “democratico” della NATO ci sono stati 2,6 milioni di profughi afgani registrati, gran parte di questi accolti in Pakistan e in Iran. Solo che a quei tempi la questione dei profughi non preoccupava i media come adesso, sebbene i numeri attuali siano inferiori. L’altro effetto mediatico è stato l’eccessiva esposizione di Biden presentato come un imbelle, quando a decidere i tempi e i modi del ritiro è stato il Pentagono, che avrebbe tutti i mezzi per bloccare eventuali direttive presidenziali non gradite. In realtà, l’evacuazione delle truppe americane è stata volutamente eseguita come una “precipitazione”, in modo da creare la solita emergenza umanitaria sia da servire ai media che da usare come pretesto. Anche perché nessuna sconfitta sul campo incalzava le truppe NATO, né metteva in pericolo la loro incolumità, come era accaduto a suo tempo in Vietnam, dove le truppe USA dovevano vedersela sia con i Vietcong che con l’esercito nord-vietnamita regolare, per cui l’analogia mediatica con quell’episodio è stata retoricamente forzata.

O forse l’emergenza umanitaria potrebbe essere più proficua del traffico di oppio? In ogni modo è il pretesto perfetto per un re-inserimento della NATO con i “voli umanitari”, ossia la proverbiale maniera di uscire dalla porta centrale per rientrare dalle porticine di dietro, avendo in questo modo anche una maggiore possibilità di alimentare il caos nel paese e di esportarlo anche nei paesi limitrofi, che sono le ex repubbliche sovietiche, da cui la Russia riceve flussi di emigrazione lavorativa. E’ quasi certo che l’ingerenza della NATO non finirà, ma avrà un risvolto con il business legato ai profughi. Non ha ritardato in effetti la prima occasione per rendere ancora più caldo e urgente il clima di corsa al “salvataggio”, con il possibile attacco dell’Isis a Kabul, una ‘nuova variante’ K del terrorismo (Isis della provincia di Khorasan), che ha giustificato i tempestivi ‘richiami’ di nuovi bombardamenti da parte delle truppe americane.

La BBC riferisce testimonianze secondo cui militari americani e forse anche turchi hanno sparato dall’alto delle torrette dell’aeroporto sulla folle, uccidendo diverse persone, giusto per punire un cattivissimo terrorista dell’Isis K. Tutto ciò è servito affinché Biden (da intendere i suoi consulenti) abbia potuto congelare i beni dell’Afghanistan depositati presso le banche americane: circa 10 miliardi di dollari. Sia il Fondo Monetario Internazionale che la Banca Mondiale hanno sospeso le linee di credito che sarebbero spettate all’Afghanistan. La motivazione è che l’attuale governo non dà garanzie di stabilità.

La ricchezza dei paesi ricchi è fatta da tanti “piccoli” furti nei confronti dei paesi poveri; furti perfino doverosi perché un governo estremista e oscurantista come quello talebano farebbe sicuramente un pessimo uso di quel denaro. Sempre se quei fondi non siano già spariti definitivamente, come i miliardi libici di Gheddafi affidati a Goldman Sachs, e tanti altri fondi e riserve auree nazionali che nella storia recente e più lontana sono venuti a mancare all’appello dei legittimi proprietari, dirottati ‘silenziosamente’ verso la finanza speculativa. In questo senso la missione in Afghanistan è stata brillantemente compiuta.

03 Settembre 2021

Zory Petzova

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Zory Petzova, studiosa dei paradossi sociali nella loro molteplicità e interferenza con la natura umana.

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