Alcune Riflessioni sui Referendum dell’8 e 9 Giugno

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di Andrea Zhok

 

Domenica 8 e lunedì 9 c.m. si voterà per cinque referendum, quattro promossi dalla CGIL e uno, sulla cittadinanza, promosso da +Europa, Radicali e Rifondazione Comunista. Vista la pessima salute della nostra democrazia, una riflessione, senza pretese di esaustività, su questo appuntamento politico è opportuna.

Prima di entrare nel merito, credo sia utile partire da un paio di questioni di cornice.

A) Esiste ed è diffuso un sentimento che propende a rifiutare la partecipazione al referendum sulla base di un generale scoramento nei confronti del funzionamento democratico. Presso una parte rilevante della popolazione si è oramai consolidata l’idea di vivere all’interno di un gioco truccato, partecipare al quale finirebbe per essere semplicemente un modo per legittimarlo. Ora, che il livello di degenerazione delle liberaldemocrazie sia avanzato è un fatto oramai accertato anche a livello di teoria politica, dove da tempo si parla di “post-democrazia”, “oligarchia tecnocratica”, “plutocrazia”, ecc. Che le liberaldemocrazie si ritrovino oggi assediate da “vincoli esterni”, “piloti automatici”, da entità sovranazionali non democraticamente elette come la Commissione Europea, che le regole di ingaggio nel confronto democratico, dal dibattito mediatico ai finanziamenti privati alla politica, siano ampiamente intossicate è certo. Il problema qui, tuttavia, è che mentre psicologicamente si può ben capire questo sentimento, che è una forma di risentimento, come strategia politica essa appare semplicemente confusa e impotente. La storia che ritirandosi dalla partecipazione alla vita democratica nelle sue forme istituzionali si minerebbe il potere costituito è una delle tesi più ampiamente falsificate che esistano. In tutto l’Occidente oramai non vota metà della popolazione e non si vede nessuna rivoluzione all’orizzonte. Dunque, se è vero che la sola partecipazione alle consultazioni formali, elezioni e referendum, sposta poco, lasciar disseccare queste forme di consultazione a me non pare una strategia intelligente ma una sciocchezza.

B) Una questione a parte è rappresentata da quelli che rifiutano la partecipazione al referendum per non conferire legittimazione a chi li ha promossi. Personalmente ritengo che questo machiavellismo politicante abbia frantumato le gonadi. Credo che la prima cosa da fare per recuperare un senso alle pratiche democratiche è non trattare l’elettorato come deficiente. Non che non sia vero che una parte dell’elettorato è tecnicamente deficiente. Lo è. Ma trattarlo sistematicamente come tale semplicemente induce a comportarsi in modo stupido anche chi avrebbe un’alternativa, e sono i più. Si può valutare nel merito un provvedimento politico o un referendum anche se è stato promosso da qualcuno di cui non abbiamo stima, ed anzi la capacità di farlo è l’essenza di una democrazia funzionante. Ridurre la politica a una lotta tra bande che si delegittimano a vicenda (processo ampiamente consolidato) è la prima debacle della vita democratica.

C) Veniamo brevemente al contenuto dei cinque referendum, contenuto che consta sempre di due elementi, uno pratico e uno simbolico.

 

C.1) Il primo referendum concerne il ripristino del fu art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sia pure nella forma già attenuata dalla riforma Fornero del 2012. Si tratta in sostanza di reistituire l’obbligo di riassunzione in presenza di licenziamenti senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti. A mio avviso questo referendum ha un relativo valore pratico (comunque non trascurabile), ma un altissimo valore simbolico. Votare “Sì” vorrebbe dire rigettare il cuore del Jobs Act di Renzi e con ciò esprimere un dissenso rispetto alla generale operazione di degrado delle condizioni del lavoro da tempo in corso. Ovviamente, e questo vale per tutti i quesiti referendari, nessun referendum sostituisce una volontà politica coerente e capace. Dunque nessuno si deve aspettare stravolgimenti, ma comunicare alle classi dirigenti italiane il dissenso maggioritario rispetto alla compressione dei diritti del lavoro sarebbe comunque un inizio.

C.2) Il secondo referendum concerne l’indennità per i licenziamenti senza giusta causa nelle piccole imprese, la cui entità andrebbe stabilita dal giudice e non sarebbe fissata dalla legge ad un massimo di 6 mensilità. Questo referendum è semplicemente un complemento al precedente, per non dare l’impressione di aver dimenticato le piccole imprese. La sua ratio è comprensibile a fronte di casi particolarmente gravi di licenziamenti illegittimi, ma i suoi effetti pratici sono dubbi e probabilmente poco rilevanti: un po’ più di incertezza per le piccole imprese, un po’ più di tutela dei lavoratori in casi estremi, un po’ più di carico alla giustizia amministrativa.

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C.3) Il terzo referendum riguarda la richiesta di fornire una motivazione tecnicamente plausibile per la stipula dei contratti a tempo determinato entro i 12 mesi. La ratio dovrebbe essere quella di limitare l’abuso di contratti a tempo determinato, limitando dunque il precariato, ma l’impressione è che sia un pannicello caldo rispetto ad una situazione fuori controllo in ogni comparto del mondo del lavoro. Anche qui, simbolicamente comprensibile, ma praticamente molto debole.

C.4) Il quarto referendum mira a rendere responsabile in caso di incidenti sul lavoro non solo la ditta che lavora in appalto, ma anche la ditta committente. Il senso dell’intervento qui è chiaro: si tratta di responsabilizzare anche le ditte committenti in modo che non tendano a subappaltare a ditte improbabili che lavorano al massimo ribasso. Vista la criticità rappresentata dagli incidenti sul lavoro e la diffusione delle pratiche di subappalto al massimo ribasso, questo referendum mi sembra sia tanto praticamente utile che simbolicamente sensato.

C.5) Il quinto e ultimo referendum è l’unico che non riguarda il diritto del lavoro e presenta tratti peculiari. Esso intende ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza necessari per richiedere la cittadinanza italiana. Ora, confesso di essere stupito che un referendum che abbia per oggetto un diritto costituzionale fondamentale, come la cittadinanza, sia oggetto di referendum. Il limite tipico dei referendum è, infatti, di essere strumenti molto rigidi, capaci soltanto di grossolane distinzioni lungo il crinale del Sì e del No, e il tema dell’acquisizione della cittadinanza è uno dei più delicati dell’epoca che viviamo. Di fatto il tema del governo dei processi migratori è oramai il tema principale su cui si vincono o perdono le elezioni in quasi tutta Europa, e soltanto uno sguardo fortemente ideologizzato può non vedere come qui si giochino battaglie cruciali per il futuro delle società europee. Personalmente credo che questo tema non dovrebbe essere oggetto di una decisione di tipo referendario, che non ha le caratteristiche di precisione e dettaglio necessarie per legiferare sul tema.

Ovviamente la cittadinanza non è un semplice orpello, una medaglia di cartone – per quanto molti vorrebbero renderla tale – ma rappresenta un insieme di diritti-doveri che definisce il corpo politico di un paese. Che i processi di globalizzazione economica abbiano teso e continuino a tendere a fare perdere di significato alla cittadinanza è un fatto. Infatti la cittadinanza è il diritto politico per eccellenza, e sancisce diritti di partecipazione e codeterminazione politica, come il diritto di voto. In un contesto in cui tendono a dominare forze economiche transnazionali, estranee ai processi decisionali democratici, parlare di cittadinanza appare come un residuo, un atavismo. Sul piano pratico l’abbassamento da 10 a 5 degli anni necessari per poter chiedere la cittadinanza può rappresentare un incentivo per eventuali migranti a scegliere l’Italia come prima destinazione, da dove, una volta ottenuta la cittadinanza, potrebbero avere accesso legale facilitato a tutti gli altri paesi dell’UE. Sul piano simbolico si tratta di un messaggio che alimenta una visione di superamento delle istituzioni statali, e più in generale, delle istituzioni politiche, a favore di una visione globalizzata, dove il libero movimento di tutti i fattori della produzione economica (merci, denaro, e forza lavoro) vanno facilitati. Sulla scorta di queste riflessioni, a titolo personale, e senza pretese che il mio ragionamento valga per altri, sono perciò propenso ad andare a votare, e a votare sicuramente Sì per il primo e il quarto referendum. Per il secondo e terzo sono indeciso tra il Sì e l’astensione. Per il quinto non ritirerò la scheda, perché a mio avviso non avrebbe dovuto essere oggetto di decisione per via referendaria.


Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex.
È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex.
È autore di numerose pubblicazioni, scientifiche e divulgative; tra le pubblicazioni monografiche: “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo” (Jaca Book 2006); “Emergentismo” (Ets 2011); “Critica della ragione liberale” (Meltemi 2020).

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