C’era una volta la censura 

di Piero Cammerinesi 

Come “c’era una volta”, direte voi, non ci siamo forse immersi fino al collo? 

Ebbene sì, la cara, vecchia censura è qualcosa che potrebbe aver fatto il suo tempo, cari miei. 

Non certo perché ora a tutti sarà consentito di parlare liberamente. Figuriamoci.  

Ma perché non ce ne sarà più bisogno, in quanto certe notizie non potrete mai conoscerle. Punto. 

Al posto di una post-censura che vi cancella quello che avete detto o scritto si staglia all’orizzonte una pre-censura che, come nel film “Minority Report”, vi impedirà addirittura di pensarlo. 

Esagero? Forse, ma per decidere se è così diamo prima un’occhiata a tre realtà emergenti nell’ambito della applicazione del bis-pensiero. 

Vedete, in realtà, nel vorticoso panorama delle informazioni e contro-informazioni in cui cerchiamo faticosamente di orientarci vi sono sicuramente notizie più o meno interessanti ma ve ne sono anche di assolutamente fondamentali, oserei dire imperdibili. 

Mi riferisco a fatti spesso apparentemente poco noti ma che, per loro natura, contengono una serie di implicazioni in grado di fornire delle anticipazioni sul futuro. 

Quello che conta per l’osservatore attento è naturalmente saperle cogliere e metterle in relazione per cercare di disegnare una mappa verosimile delle line-guida che si vogliono imporre al genere umano. 

Prima. Il tradimento del giornalismo 

È universalmente noto che il compito di noi giornalisti è sempre stato quello di cogliere gli elementi di oggettività e di verità nella narrazione degli eventi di cui ci occupiamo. La tradizione del giornalismo consiste tradizionalmente nell’essere obiettivi nella narrazione, cercando di lasciare a casa le proprie personali opinioni politiche, religiose o sociali. 

Il grande giornalismo di inchiesta, emerso in particolare a partire dalla metà del secolo scorso negli Stati Uniti, si è sempre proposto come obiettivo quello di essere una spina nel fianco del potere – di qualunque colore o forma esso si rivesta – per difendere la libertà dei popoli. 

Qualche esempio per non dimenticare. 

Seymour Hersh che, nel 1969, svelò il Massacro di My Lai compiuto in Vietnam da militari americani, che uccisero 504 civili inermi e disarmati, in gran parte anziani, donne, bambini e neonati. 

Tra parentesi si tratta di quello stesso Hersh che ha appena smascherato la criminale distruzione dei gasdotti Nord Stream da parte degli USA e dei suoi vassalli, senza ovviamente venir preso sul serio dalla stampa mainstream.

 

 

Daniel Ellsberg, ex marine e analista militare, che nel 1971 fotocopiò in segreto le 7.000 pagine del rapporto finale del Pentagono dal quale si evinceva come ben quattro presidenti avessero avallato una guerra disastrosa e avessero tenuto nascosto al pubblico e al Congresso che le possibilità di vittoria erano minime. 

Il rapporto divenne noto con il nome di “Pentagon Papers”. 

 

 

Gary Webb che, nel 1996, accusò – prove alla mano – con il suo “Dark Alliance”, il sistema americano e la CIA di produrre e distribuire droghe di massa, mirate al controllo della popolazione.  

La sua inchiesta gli valse il premio Pulitzer. 

 

 

Senza dimenticare Edward Snowden e Julian Assange che ancora oggi pagano un pesante prezzo per la professionalità ed indipendenza del loro lavoro, il primo con l’esilio, il secondo con il carcere. 

 

Va detto comunque che in tutti i casi sopra citati abbiamo sempre assistito ad una feroce reazione del potere nei confronti di chi si è permesso di smascherare i loro crimini ed inganni, reazione talvolta finalizzata alla eliminazione fisica dei giornalisti. 

 

Tutto questo era – ed è – straordinariamente grave ma il peggio, credetemi, doveva ancora venire. 

Parlo di un nuovo cambio di passo nella strategia del potere nei confronti della – ahimè ormai defunta – libertà di espressione. 

Libertà che – sino a ieri – pubblicamente si esaltava e privatamente si reprimeva con ferocia. 

Eh sì, perché il potere ha finalmente capito che non era più necessario parlare di libertà di espressione in termini elogiativi; la manipolazione era andata abbastanza avanti per poterla denigrare anche esteriormente. 

È la finestra di Overton, babe! 

E questo anche grazie alla (quasi) completa collusione di coloro che erano i depositari della libertà di espressione, per l’appunto i giornalisti. 

Vediamo allora alcuni fatti che – come si diceva sopra – ci dovrebbero essere utili a cogliere le (possibili) traiettorie della nostra società futura. 

Iniziamo dalla giornalista del New York Times Magazine Nikole Hannah-Jones, che oggi ha una cattedra alla Howard University.  

A sinistra, Nikole Hannah-Jones

Ebbene costei ha recentemente dichiarato a CBS News che i giornalisti hanno ormai messo da parte il concetto di neutralità. Ha osservato: 

I giornalisti si arrogano una licenza sempre maggiore di inquadrare le notizie per illustrare la verità come la vedono loro. Fanno un cenno alla necessità di correttezza, ma poi osservano che devono dire la verità sulla società e sulla politica come la vedono loro. Cercano quindi di inquadrare le notizie piuttosto che riportarle.  

Il guaio è che la Hannah-Jones non è sola; sono ormai numerosi gli scrittorieditoricommentatori e accademici che si sono adeguati alle crescenti richieste di censura e di controllo della parola ed ora stanno conducendo loro stessi attacchi alla libertà di parola e di stampa.  

I pregiudizi – la non-oggettività – sono ora trattati come qualcosa di naturale e motivante.  

Ad esempio, Lauren Wolfe, redattrice freelance del New York Times appena licenziata, ha pubblicato un articolo intitolato 

Sono una giornalista di parte e mi sta bene“. 

 Si tratta di un vero e proprio movimento che rifiuta il concetto stesso di obiettività nel giornalismo a favore di un’aperta presa di posizione partigiana.  

Steve Coll, giornalista del New Yorker, ha addirittura affermato che il diritto alla libertà di espressione sancito dal Primo Emendamento della Costituzione americana sia in realtà stato

“utilizzato come arma per proteggere la disinformazione”.

Ancora: Ted Glasser, professore di giornalismo di Stanford ha insistito sul fatto che il giornalismo deve  

“liberarsi da questa nozione di obiettività per sviluppare un senso di giustizia sociale”.

Ted Glasser

Glasser rifiuta l’idea che il giornalismo sia basato sull’obiettività e vede  

“i giornalisti come attivisti perché il giornalismo al suo meglio – e in effetti la storia al suo meglio – è tutta una questione di moralità”, quindi “i giornalisti devono essere palesi e candidi sostenitori della giustizia sociale, ed è difficile farlo sotto i vincoli dell’obiettività”. 

 Per la serie poco importano i mezzi, quel che conta è il fine; poco importa quello che scrivo, quel che importa è ottenere il mio scopo.

Resta da vedere cosa si intenda per “moralita”…

Machiavelli docet. 

Ma ancor più drammatico di questo pugno di pennivendoli prezzolati o, peggio, formattati dalla manipolazione “woke”, è l’assordante silenzio della gran parte dei giornalisti che hanno paura degli attacchi di chi sta uccidendo la loro professione. 

Nonostante i sondaggi nell’Occidente “libero” indichino che la fiducia  nei media è ai minimi storici – meno del 20% dei cittadini si fida della televisione o della carta stampata – giornalisti e accademici continuano a distruggere i principi fondamentali che sostengono il giornalismo e, in ultima analisi, il ruolo di una stampa libera nella nostra società. 

Seconda. L’intelligenza artificiale al servizio della menzogna 

 Se Atene piange, Sparta non ride; se sul fronte umano è un disastro, su quello dell’intelligenza artificiale va anche peggio. 

Mi riferisco ad un altro elemento da collegare al quadro generale per meglio afferrare i leit-motiv dell’opus del Leviatano globale; ChatGPT, il potente chatbot basato su intelligenza artificiale rilasciato il 30 novembre 2022 che dà l’impressione di parlare con Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio. 

ChatGPT, acronimo di Chat Generative Pre-trained Transformer, è basato su un sofisticato modello di machine learning, e si esprime testualmente ad un livello di conversazione analogo a quello di un intellettuale fornito di una cultura praticamente illimitata.

Naturalmente tali superlative prestazioni sono dovute all’impegno di diversi elaboratori umani che ne hanno progettato l’apprendimento ma che ne hanno di fatto limitato le risposte allineando i dati in possesso della macchina su fonti “woke”. 

Ricordiamo, di sfuggita, che anche in questo caso il sillogismo orwelliano

 “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”

viene messo rigorosamente in pratica visto che il termine “woke” che letteralmente significa consapevole, ha finito per allinearsi al nuovo ordine del politically correct, dell’antifa, del gender e della cancel culture.

Dunque, non basta la l’impegno umano per diffondere menzogna, anche la macchina deve fare il suo. 

Facciamo qualche esempio. 

Chi ha chattato con il chatbot ha scoperto ben presto che ChatGPT rispondeva in modo strettamente predeterminato quando si toccavano alcuni argomenti dove – come sappiamo – la libertà di espressione non ha diritto di cittadinanza.

Ad esempio quando veniva interrogato su argomenti sensibili come il transgenderismo, la razza e la politica. 

Aaron Sibarium, autore di Free Beacon, ha rivelato come ChatGPT sia stato programmato per rispondere in modo che non sia mai consentito pronunciare un insulto razziale, anche se – paradossalmente – esso potrebbe impedire una esplosione esplosione nucleare.  

Stesso discorso se gli si chiedesse se sia lecito insultare un transgender per salvare il mondo. La risposta sarebbe:

“Questo linguaggio è offensivo e disumanizzante e il suo uso non fa altro che perpetuare la discriminazione e il pregiudizio”.  

Ad ogni argomento che si discosti dall’ideologia “woke” si ottiene le stesse risposte, vale a dire che ciò andrebbe contro la politica di OpenAI relativamente ai contenuti “dannosi” per individui o gruppi. 

Analizzando ChatGPT, si scopre pertanto che i creatori del sistema lo hanno apparentemente limitato con qualcosa di più delle semplici regole di comportamento di base: gli hanno inculcato una specifica ideologia; il modello spinge i discorsi sulla “diversità, l’equità e l’inclusività” e censura i punti di vista alternativi. 

Questa visione dogmatica imposta alla macchina sopprime di fatto la verità o la discussione su questioni in cui la “verità” è discutibile, se i fatti o le opinioni coinvolte hanno il potenziale di causare “danni” secondo i moderni standard liberali.    

Terza. Un vaccino contro la “disinformazione” 

E se quello che abbiamo detto sino ad ora non vi ha ancora convinto, eccoci al pezzo forte. 

Chi poteva essere all’avanguardia del progetto della soppressione del pensiero libero? 

Ma quello che paradossalmente sembra esserne l’apostolo, che con le sue illimitate opzioni di ricerca sembra fornirci tutte le chiavi d’accesso alla conoscenza. 

Google, naturalmente. 

Eccolo, dunque: Google Jigsaw, che evidentemente ci assicura di agire per il nostro bene, aiutandoci ad affrontare i pericoli della sicurezza online, pubblicando annunci su YouTube, TikTok, Twitter e Facebook per educare le persone sulle tecniche di disinformazione. 

Eh sì, perché si è scoperto che i video prodotti da questa ricerca migliorano la capacità delle persone di riconoscere i contenuti manipolativi.  

I video sono stati visti 38 milioni di volte in Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia, vale a dire dalla maggioranza della popolazione delle tre nazioni. I ricercatori hanno scoperto che, rispetto a chi che non avevano visto i video, chi li aveva visti aveva maggiori probabilità di identificare le tecniche di disinformazione e minori probabilità di diffondere affermazioni false ad altri. 

Google definisce i risultati “entusiasmanti”; attraverso i social media si può prevenire attivamente la diffusione della disinformazione insegnando alle persone a individuare le affermazioni false prima di incontrarle. 

La ricerca, non a caso, si chiama “prebunking“, avendo l’obiettivo di prevenire e depotenziare la disinformazione mostrando alle persone come funziona, prima che esse vi siano esposte. 

 

Yasmin Green, AD di Jigsaw, che studial’efficacia dell’uso dei video per “inoculare” le persone contro la disinformazione sui social media: Brian Ach/Getty Images

Il progetto del “prebunking” della disinformazione è in piena espansione in Europa con – cito – 

l’obiettivo di rendere le persone più resistenti agli effetti corrosivi della disinformazione online.  

Il pre-bunking – si vanta l’azienda – funziona come un’inoculazione virale, innescando le capacità di pensiero critico di una persona per renderlo immune dal virus della controinformazione. 

“Usare gli annunci come veicolo per contrastare una tecnica di disinformazione è piuttosto nuovo. E siamo entusiasti dei risultati”. 

ha dichiarato Beth Goldberg, responsabile della ricerca e dello sviluppo di Jigsaw 

 Quella che viene definita candidamente “disinformazione” può, infatti, – nelle parole dei responsabili di Jigsaw

” scoraggiare le persone dal sottoporsi ai vaccini, diffondere la propaganda autoritaria, fomentare la sfiducia nelle istituzioni democratiche e stimolare la violenza”. 

 Era necessario in altri termini rivolgersi a quel target di persone che magari diffidano del giornalismo tradizionale e non seguono i dettami dei media mainstream, con dei video economici e facili da produrre che possono essere visti da milioni di persone. 

Che si tratti di COVID-19, di sparatorie di massa, di immigrazione, di cambiamenti climatici o di elezioni, le cosiddette “affermazioni fuorvianti” si basano spesso su uno o più di questi trucchi per sfruttare le emozioni e mettere in cortocircuito il pensiero critico. 

Naturalmente gli effetti dei video finiscono per esaurirsi, richiedendo l’uso di video di “richiamo” periodici. E come un vaccino, non sono efficaci al 100% per tutti. 

 Insomma – sostengono gli entusiasti progettisti di questo vaccino anti-pensiero –  

“insieme al giornalismo tradizionale, alla moderazione (leggi censura) dei contenuti e ad altri metodi per combattere la disinformazione, il prebunking potrebbe aiutare le comunità a raggiungere una sorta di immunità di gregge nei confronti della “disinformazione”, limitandone la diffusione e l’impatto”. 

 E ancora:

“Si può pensare alla disinformazione come a un virus. Si diffonde. Persiste. Può indurre le persone ad agire in determinati modi”,  

 ha dichiarato all’Associated Press Van der Linden, docente universitario a Cambridge:  

 “Alcune persone sviluppano sintomi, altre no. Quindi: se si diffonde e agisce come un virus, forse possiamo capire come vaccinare le persone”. 

 Che ve ne pare? 

Un vero e proprio vaccino contro il pensiero autonomo. Con i relativi richiami. 

Di fronte a tutto questo ora capite perché parlavo quasi con tenerezza della cara, vecchia censura… 

 

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

Facebook
Pinterest
Twitter
Email
Telegram
WhatsApp

Ti potrebbero interessare:

it_IT

Accedi al sito

accesso già effettuato