Dalla Distruzione di Hamas alla Cancellazione della Palestina

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di Murad Sadygzade

Nonostante le obiezioni provenienti da tutto il mondo, il governo di Netanyahu sta ridisegnando la mappa con i cingoli dei carri armati

All’inizio di agosto, Benjamin Netanyahu ha dissipato ogni residua ambiguità. In un’intervista diretta con Fox News, ha reso esplicito ciò che era stato a lungo sottinteso attraverso eufemismi diplomatici: Israele intende assumere il pieno controllo militare di Gaza, smantellare Hamas come entità politica e militare e, infine, trasferire l’autorità a un’“amministrazione civile non Hamas”, idealmente con la partecipazione araba.

“Non governeremo Gaza”, ha aggiunto il primo ministro. Ma anche in quel caso, la formula “conquistare ma non governare” sembrava più un velo diplomatico per una linea d’azione molto più dura.

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Il giorno successivo, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato formalmente questa linea, avviando i preparativi per un assalto a Gaza City.

Il segretario generale delle Nazioni Unite ha risposto prontamente, avvertendo che un’operazione del genere rischiava una pericolosa escalation e minacciava di normalizzare quella che un tempo era stata una catastrofe umanitaria evitabile.

Agosto ha messo a nudo la guerra nella sua più spietata chiarezza.

Gli attacchi su Zeitoun, Shuja’iyya, Sabra e le operazioni nella zona di Jabalia sono diventati parte del ritmo quotidiano. L’accerchiamento della città di Gaza si è stretto lentamente ma inesorabilmente. Il generale di brigata Effi Defrin ha confermato l’avvio di una nuova fase, con le truppe che hanno raggiunto la periferia della città. Allo stesso tempo, il governo ha richiamato decine di migliaia di riservisti, segnalando chiaramente che Israele era pronto a prendere la città con la forza, anche se tecnicamente rimaneva aperta la possibilità di una tregua negoziata.

In questo contesto, parlare di “stabilizzazione” suona vuoto. Le infrastrutture sono in rovina, il sistema sanitario è sull’orlo del collasso, le linee di aiuto spesso finiscono sotto il fuoco nemico e i gruppi di monitoraggio internazionali stanno registrando segni di una carestia imminente.

Il conflitto non è più una guerra convenzionale tra eserciti. Sta assumendo i contorni di una disintegrazione controllata della vita civile.

Ma Gaza non è l’intero quadro.

In Cisgiordania, la logica del controllo militare viene formalizzata sia dal punto di vista giuridico che spaziale. Il 23 luglio, la Knesset ha votato a maggioranza l’adozione di una dichiarazione che sostiene l’estensione della sovranità israeliana sulla Giudea, la Samaria e la Valle del Giordano. Sebbene formulata come una raccomandazione, questa mossa normalizza di fatto l’istituzionalizzazione dell’erosione delle linee rosse precedentemente tracciate.

È in questo contesto che il piano E1 degli insediamenti israeliani in Cisgiordania deve essere inteso come un anello fondamentale nella cintura orientale che circonda Gerusalemme. Il 20 agosto, il Comitato superiore di pianificazione dell’amministrazione civile ha dato il via libera alla costruzione di oltre 3.400 unità abitative tra Gerusalemme Est e Ma’ale Adumim. Per gli urbanisti, si tratta di “colmare le lacune” tra gli insediamenti esistenti. Per i responsabili politici e i funzionari militari, rappresenta un perno strategico.

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In primo luogo, E1 mira a creare una presenza ebraica continua che circondi Gerusalemme e a integrare Ma’ale Adumim nel tessuto urbano della città. Ciò rafforza il fianco orientale della capitale, fornisce profondità strategica e protegge l’autostrada 1, il corridoio vitale verso il Mar Morto e la Valle del Giordano.

In secondo luogo, separa Gerusalemme Est dal suo naturale hinterland palestinese. L’E1 blocca fisicamente l’accesso della Cisgiordania alla parte orientale della città, tagliando fuori Gerusalemme Est da Ramallah a nord e Betlemme a sud.

In terzo luogo, smantella la continuità territoriale di qualsiasi futuro Stato palestinese. Invece di uno spazio unificato, emerge una rete di enclavi isolate, collegate da strade di circonvallazione e tunnel che non riescono a compensare la perdita dell’accesso diretto a Gerusalemme, sia simbolico che amministrativo.

In quarto luogo, cerca di spostare il dibattito sullo status di Gerusalemme dal regno della diplomazia a quello dei fatti irrevocabili. Una volta costruita la cintura orientale, la visione di Gerusalemme Est come capitale di uno Stato palestinese diventa quasi impossibile da realizzare.

Infine, E1 incarna due principi opposti: per gli israeliani, una “continuità gestita” del controllo; per i palestinesi, un “vuoto gestito” di governance. Una parte ottiene un corridoio ininterrotto di dominio, l’altra si ritrova con un territorio frammentato e prospettive ridotte di autodeterminazione.

Non sorprende quindi che la reazione internazionale sia stata rapida e inequivocabile, dall’ONU e dall’UE a Londra e Canberra. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, commentando il lancio dell’E1, ha detto ad alta voce ciò che le mappe avevano già suggerito: il progetto avrebbe “seppellito” l’idea di uno Stato palestinese.

In una trasmissione di agosto su i24News, Netanyahu ha affermato di sentire un “forte legame” con la visione di una “Grande Israele”. Per le capitali arabe questa è stata una conferma del suo massimalismo strategico. La campagna militare a Gaza e l’espansione pianificata in Cisgiordania non sono due binari paralleli, ma parti di un unico programma integrato. La risposta regionale è stata rapida e senza compromessi, dagli avvertimenti della Giordania alla condanna collettiva delle istituzioni internazionali.

Il quadro più ampio rivela un disegno deliberato: a Gaza, la sottomissione forzata senza alcuna credibile o legittima “consegna delle chiavi”; in Cisgiordania, una riconfigurazione della geografia politica attraverso l’E1 e i progetti correlati, traducendo una disputa diplomatica nel linguaggio delle strade, della zonizzazione e della demografia. Il linguaggio della “temporaneità” e della “mancanza di intenzione di governare” funge da copertura, ma in pratica la temporaneità si trasforma in permanenza e il controllo diventa istituzionalizzato come nuova normalità.

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Mentre le linee convergono nei quartieri distrutti di Gaza, nei documenti di pianificazione per Gerusalemme Est e nelle dichiarazioni della leadership israeliana, lo spazio per qualsiasi risultato negoziato si restringe ulteriormente.

Quello che era iniziato come un impegno a smantellare Hamas sta funzionando sempre più come un meccanismo per cancellare la parola “Palestina” dalla mappa futura. In questo quadro, non c’è un “giorno dopo”. Ciò che esiste invece è un seguito accuratamente preordinato, progettato per non lasciare spazio ad alternative. La mappa viene disegnata prima che si raggiunga la pace e, alla fine, è la mappa che diventa l’argomento decisivo, non un trattato.

L’attuale operazione militare, denominata Gideon’s Chariot 2, non è stata ufficialmente dichiarata un’occupazione. Tuttavia, la sua natura sul campo la rende molto simile a un’occupazione. Le unità corazzate dell’IDF hanno raggiunto Sabra e sono impegnate in combattimenti in corso all’incrocio di Zeitoun, un punto strategico dove i combattimenti continuano da oltre una settimana. Le descrizioni militari di queste azioni come operazioni alla periferia assomigliano sempre più alla fase iniziale di un assalto completo alla città di Gaza. Nelle ultime 24 ore, il modello si è solo intensificato. L’artiglieria e gli attacchi aerei hanno sistematicamente ripulito i distretti orientali e settentrionali, tra cui Zeitoun, Shuja’iyya, Sabra e Jabalia, in preparazione all’avanzata dei blindati e della fanteria.

Lo sforzo militare è ora rafforzato da una mobilitazione su larga scala di personale. È stata approvata una coscrizione graduale. L’ondata principale, composta da 60.000 riservisti, dovrebbe presentarsi entro il 2 settembre, seguita da altri gruppi durante l’autunno e l’inverno. Non si tratta di un raid tattico, ma di una campagna di combattimento urbano prolungata che non sarà misurata dai segni militari su una mappa, ma dalla capacità di sostenere il flusso logistico e le rotazioni del personale in condizioni intense.

Gli sforzi diplomatici si stanno svolgendo parallelamente alla campagna militare. Il 18 agosto Hamas, attraverso intermediari egiziani e qatarioti, ha accettato le linee generali di un cessate il fuoco noto come Piano Witkoff. Esso propone una pausa di 60 giorni, il rilascio di dieci ostaggi vivi e la restituzione dei resti di altri diciotto in cambio di azioni israeliane riguardanti i detenuti palestinesi e l’accesso umanitario. Il governo israeliano non ha accettato ufficialmente il piano e insiste che tutti gli ostaggi devono essere inclusi. Ciononostante, l’offerta di Hamas è già stata utilizzata da Israele come leva. Serve più come punto di pressione tattico che come vera svolta.

Questo contesto dà significato all’ultima direttiva di Netanyahu che chiede una tempistica abbreviata per conquistare le roccaforti rimanenti di Hamas. La campagna terrestre accelerata mira a fare pressione su Hamas affinché accetti concessioni più ampie nel quadro dell’accordo proposto. Se Hamas rifiuterà, Israele presenterà la conquista forzata di Gaza City come un’azione giustificata al proprio pubblico interno.

Gli osservatori vicini al governo interpretano la strategia esattamente in questi termini. L’obiettivo non è solo quello di smantellare le infrastrutture di Hamas, ma anche di alzare la posta in gioco e costringere a una scelta binaria tra una tregua alle condizioni di Israele e un ingresso militare completo nella città. Anche la strategia militare più accuratamente progettata alla fine si trova ad affrontare lo stesso dilemma: la sfida del giorno dopo. Senza un mandato legittimo e senza un quadro amministrativo coerente, anche una vittoria tattica rischia di tradursi in un vuoto controllato. In uno scenario del genere, il controllo passa di mano sulla mappa, ma la minaccia sottostante rimane irrisolta.

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Anche l’ideologia gioca un ruolo centrale nel plasmare questa campagna.

Ad agosto, Netanyahu ha affermato pubblicamente la sua forte identificazione personale con la visione della Terra Promessa e della Grande Israele. Questa dichiarazione ha provocato forti reazioni nelle capitali arabe e ha ulteriormente screditato la narrativa di Israele secondo cui esso cerca di controllare Gaza senza governarla. La realtà sul campo è più complessa e fa riflettere. Dopo quasi due anni di conflitto, l’IDF non ha eliminato la minaccia. Ha subito perdite significative e non c’è un chiaro consenso all’interno del corpo degli ufficiali sul lancio di un’altra offensiva terrestre a Gaza.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, i vertici militari israeliani avevano avvertito che una conquista completa di Gaza avrebbe comportato pesanti perdite e maggiori rischi per gli ostaggi. Per questo motivo, le operazioni precedenti avevano deliberatamente evitato le zone in cui era probabile che fossero tenuti gli ostaggi. Da valutazioni trapelate emerge che lo Stato Maggiore aveva proposto una strategia incentrata sull’accerchiamento della città di Gaza e sull’applicazione di una pressione crescente nel tempo. Tuttavia, la leadership politica ha optato invece per la rapidità e l’assalto diretto. Le vittime sono già centinaia e i combattimenti nelle principali aree urbane devono ancora iniziare.

L’opposizione interna ha chiarito la propria posizione. Dopo un briefing sulla sicurezza, il leader dell’opposizione Yair Lapid ha dichiarato che una nuova occupazione di Gaza sarebbe un grave errore per cui Israele pagherebbe un prezzo elevato. La pressione sul governo sta aumentando sia internamente, attraverso manifestazioni settimanali che chiedono un accordo per il rilascio degli ostaggi, sia esternamente.

Paesi come Francia, Regno Unito, Canada, Australia e Malta si stanno preparando a compiere passi verso il riconoscimento dello Stato palestinese all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Nel linguaggio della diplomazia internazionale, questa mossa segnala un contrappeso sia alla posizione intransigente di Hamas che alle ambizioni territoriali di destra di Israele. Più Israele insiste con forza nel conquistare Gaza a tutti i costi, più forte diventa la risposta globale a favore della formalizzazione dello status della Palestina.

Tuttavia, la situazione ora trascende le dinamiche locali. Sullo sfondo dell’instabilità mondiale, compresi i conflitti regionali, l’interruzione delle rotte commerciali globali e l’aumento del rischio geopolitico, la campagna di Gaza appare sempre più come parte di una più ampia guerra di logoramento a lungo termine. Nell’ambito del pensiero strategico di Israele, l’obiettivo finale sembra essere la chiusura definitiva della questione palestinese. Ciò comporta lo smantellamento di tutte le strutture politiche e di tutti gli attori che, in qualsiasi combinazione, potrebbero minacciare la sicurezza israeliana. Secondo questa logica, le conseguenze umanitarie non sono considerate un vincolo.

Un recente rapporto delle Nazioni Unite illustra la portata della crisi.

Per la prima volta, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura ha dichiarato ufficialmente una carestia catastrofica a Gaza, raggiungendo il quinto e più alto livello della Classificazione integrata della sicurezza alimentare (IPC). Entro la fine di settembre, si prevede che oltre 640.000 persone dovranno affrontare una privazione totale di cibo. Tuttavia, nemmeno questa valutazione allarmante ha modificato l’attuale traiettoria. Anche le dichiarazioni di intenti dell’Europa occidentale di riconoscere lo Stato palestinese non sono riuscite a diventare punti di svolta decisivi.

Israele si trova ora di fronte a un bivio raro e difficile. Una strada porta alla diplomazia. Prevede una pausa di 60 giorni, uno scambio iniziale di prigionieri e un più ampio riconoscimento del fatto che la sicurezza duratura si ottiene non solo con la forza militare, ma anche attraverso le istituzioni, i diritti legali e la legittimità. L’altra strada porta a una nuova spirale di guerra urbana. Prevede il dispiegamento di un numero maggiore di riservisti, ordini militari sempre più severi e obiettivi che diventano ogni giorno meno chiari. A Sabra, le tracce fisiche dei carri armati sono già visibili prima che sia stata fatta qualsiasi dichiarazione politica chiara. In definitiva, però, il risultato non sarà determinato dai resoconti dal campo di battaglia, ma da formule legali, diplomatiche e istituzionali. Queste decideranno se la caduta di Gaza segnerà la fine della guerra o semplicemente l’inizio di un nuovo capitolo.

Man mano che i piani d’assalto vengono finalizzati, le liste di mobilitazione si allungano e la retorica ideologica si intensifica, il senso di inevitabilità diventa più forte. Questa operazione assomiglia meno a una campagna isolata e più a una componente di un progetto a lungo termine volto a riconfigurare la geografia e lo status. Se questa logica continuerà a prevalere, il giorno dopo sarà già scritto e non lascerà spazio ad alternative. In questo scenario, la mappa avrà più peso di qualsiasi accordo. I fatti sul campo diventeranno l’autorità suprema, oscurando i riconoscimenti diplomatici, i rapporti internazionali e i dati umanitari.

Traduzione dall’inglese di Piero Cammerinesi per LiberoPensare

Fonte

Nell’immagine di copertina: tela di Malak Mattar, Death Road, [Via della morte] Cortesia di Anthony Dawton

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