Del Lavoro Spirituale

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Il 28 agosto 1919 andai da Monaco a Stoccarda (per cui allora occorreva un passaporto della direzione di Polizia di Monaco) per esporre a Rudolf Steiner, al quale ero stata annunciata, il piano di un nuovo lavoro da incominciarsi a Monaco. Dopo la morte di Sophie Stindes il lavoro languiva. Entro i due gruppi e tra di loro si litigava. Si andò a Stoccarda per accusarsi reciprocamente dinanzi a Rudolf Steiner, che allora era occupato con le sue cure per la salvezza sociale e politica della Germania e per l’apertura della Scuola Waldorf.

All’opposto di precedenti accoglienze, egli mi ricevette freddamente, chiuso nell’espressione e chiese subito in tono severo ed asciutto: “ Che cosa ha da dirmi?” Alla mia risposta che, avendo Friedrich Lauer (il pittore morto nel 1935) messo a disposizione del movimento la sua casa con la grande sala, volevo prendere l’iniziativa di un nuovo lavoro, seguì nel medesimo tono la seconda domanda: “E come si figura lei questo lavoro?” Tutto il piano viveva già ben concretamente nella mia rappresentazione. Così poté essere rapidamente e chiaramente spiegato: corsi d’introduzione, corsi di continuazione, lavoro per la gioventù, conferenze dei vari oratori antroposofi, pomeriggi per bambini per i figli dei proletari della periferia cittadina, del cui negligente abbandono – causato dalle condizioni del momento – i maestri si lamentavano nei pomeriggi di vacanza.

Quando ebbi finito il mio discorso, il tono e l’espressione del viso di Rudolf Steiner erano cambiati. “Questo mi è di grande gioia – disse con calore – ed io l’aiuterò sempre ed in tutto”. Egli aggiunse però un avvertimento per il grande peso e la fatica che una tale impresa significa, interiormente e esteriormente, per le ostilità e le trafitture provenienti proprio dei “nostri cari membri”. Dopo che ebbe ancora parlato di talune cose che a ciò si riferivano, mi congedò affinché “dormissi su tutto ciò ancora una notte” e mi fissò l’incontro per il giorno dopo, di mattina presto, perché gli dicessi la mia decisione, sulla quale egli era altrettanto poco in dubbio come io stessa.

Così quando tornai il giorno dopo, egli sorrise. Ebbi allora parte a qualcosa di unico, atto a trasformare interiormente, in quanto in quelle ed in altre ore da lui fissate, egli mi diede delle profonde istruzioni sull’attività delle conferenze e sul lavoro di gruppo. Escludendo ogni elemento direttamente personale, raggruppo qui ciò che ha importanza generale e fondamentale.

Egli prese lo spunto da ciò che è spiegato nella conferenza di Monaco del 15 giugno 1915.

“Il lavoro antroposofico è una realtà nei mondi spirituali. Esso giunge fino ai mondi spirituali, fino alla vita degli esseri delle Gerarchie superiori. Per mezzo del giusto lavoro antroposofico, molta parte del male che avviene nel mondo può essere pareggiata per i Mondi spirituali, che continuamente agiscono su tutto”.

Venendo poi al caso in oggetto, incominciò:

“Al principio del lavoro lei terrà la prima conferenza. Ma le dico questo – egli si piegò un po’ in avanti e divenne molto energico – se vi saranno solo tre persone, se vi sarà una sola persona, lei terrà la sua conferenza come se vi sedessero cinquecento persone. Può esserci quello per cui la cosa abbia importanza”. “Altrettanto coi bambini. Se dopo la sua notificazione si presentano due soli bambini, incominci coi due”.

Si diffondeva allora nella Società un’ondata un po’ propagandistica, si voleva agire “in ampiezza”, si volevano affrontare le correnti del tempo. Taluni capi gruppo ci misero dell’ambizione nell’aumentare al massimo il numero dei membri. Rudolf Steiner era scontento di ciò.

“Il movimento deve naturalmente crescere, ma ciò deve avvenire in modo giusto e sano. Come lo si fa ora, rende superficiale l’associazione. Questa è una rovina per la Società”.

Spesso rilevava la mancanza della facoltà di discernimento, di tatto, di coscienziosità. Poi continuò:

“Ciò che è fondamentale per qualsiasi lavoro antroposofico realmente giusto è: può parlare e spiegare soltanto ciò che dei contenuti dell’antroposofia è diventato reale vita interiore. Ciò che è diventato gioia di vita, condizione di vita, ciò che ha riunito con lei. Solo questo penetra negli altri. Solo questo fa realmente d’intermediario all’Antroposofia”. “Ciò che la gente espone in conferenze traendolo dal loro sapere intellettuale è astratto e sugli ascoltatori non agisce diversamente dalle altre astrazioni. Non viene formata sostanza vivente, non viene destata alcuna convinzione”.

“Saremmo già molto avanti con l’antroposofia nel mondo se i nostri conferenzieri non parlassero tanto traendo dalla loro testa. Non si può oggi appropriarsi intellettualmente di qualcosa di scientifico spirituale e spacciarlo domani o dopodomani, oppure in un paio di settimane o di mesi, spremendoselo dalla testa. Questo può essere del tutto esatto riguardo al contenuto, può anche essere bello nel porgere. Ma non vive. Tutto deve essere dapprima elaborato concettualmente, ma deve poi trasformarsi. Deve diventare vita, figura. E ciò deve stare dietro l’elemento concettuale di una conferenza. Si deve parlare con tutto l’uomo, con tutte le forze del cuore sature di volontà. Allora viene afferrato l’essere più profondo degli ascoltatori, anche se esso ancora respinge la cosa e persino la senta con avversione”.

“Una cosa lei deve imprimere nella sua anima: ciò che è decisivo (deve naturalmente essere esatto) non è che cosa lei dice, ma come lo dice. Come ciò che è detto vive in lei, come lei vi sta dentro in serietà e veracità interiore, come è il suo atteggiamento più intimo, la sua più profonda disposizione d’animo, la sua più intima coscienziosità. A ciò sono rivolti gli sguardi del Mondo spirituale”.

 

Egli divenne della serietà più stringente:

“E lei deve sapere ancora questo, senza mai dimenticarlo: quando lei tiene delle conferenze o quando vengono a lei degli uomini con delle domande – di qualsiasi specie siano le domande – se lei poi se ne sta lì in piedi o seduta, ma gonfia di un sentimento di appagamento per il fatto che lei può parlare, rispondere, istruire ecc. attingendo da ciò che porta in sé, da ciò che ha raggiunto – se lei dunque sta di fronte all’altro presa da un sentimento di ricchezza, di superiorità spirituale, sarà meglio allora che pianti ogni cosa! Perché allora lei solo danneggia se stessa e non giova affatto all’altro, perché ciò che dice rimane solo estraneo”. “Lei non deve mai parlare traendo dall’interno senso di gonfiezza, dalla pienezza interiore, se vuole servire i Mondi spirituali in senso realmente antroposofico. Deve avere invece un sentimento d’insufficienza, di incapacità, di povertà di fronte a ciò che lei deve fare, a ciò che si aspetta da lei, un sentimento d’impegno di fronte agli uomini e di fronte agli esseri del Mondo spirituale. Lei deve veramente chiedere aiuto. Allora lei si trova nella giusta disposizione animica. Allora lei trova ciò che è esatto nelle sue risposte. Allora le sue parole trovano la via dell’interiorità degli ascoltatori. Allora lei parla attingendo dalla verità”. “Si dovrebbe sentire sempre ogni lavoro antroposofico, ogni conferenza, come grave responsabilità, si dovrebbe sentire tale gravità”. “Ma questo non è così piacevole come quando si gode di se stessi”.

Venne poi a parlare del lavoro di gruppo e del compito di dirigere il gruppo.

“Qui i compiti sono del tutto diversi dal lavoro verso l’esterno. Qui l’essenziale è la comunità. E invero, una comunità degli uomini più diversi, di cosiddetti colti e di cosiddetti incolti, provenienti da tutte le condizioni sociali e da tutte le professioni, anziani e giovani, sia per gli anni, per la qualità di membri o per le qualità animiche. Questa vuole e deve essere, grazie alla sostanza antroposofica, una comunità vivente e cosciente, che viene elaborata nelle serate del gruppo. E’ un processo cosciente che si sviluppa sempre più nel corso del lavoro. Di tale sviluppo per mezzo del lavoro è responsabile il dirigente del gruppo. Intorno alla personalità del dirigente del gruppo dovrebbero delinearsi i tratti di tale comunità. Ciò dovrebbe essere così, ma anche in ciò la cosa viene presa troppo alla leggera. Come un gruppo è fatto, come vi si lavora, ciò dipende dal suo dirigente”.

“Il significato e quindi il compito del lavoro di gruppo è: lavorare in profondità nell’elemento esoterico. Nel lavoro in comune del gruppo vive la preparazione per la sesta epoca di cultura, soltanto nel lavoro di gruppo può essere fatto un determinato lavoro in preparazione della vita spirituale della sesta epoca di cultura, nella elaborazione dell’elemento esoterico, nello sviluppo della sostanza antroposofica, come sussiste nei cicli, nelle conferenze interne”.

“Ed anche per questo vale naturalmente quanto dissi dianzi: lei può lavorare ed operare giustamente come dirigente di gruppo, se il suo lavoro è vita esoterica in via di accrescimento, indifferente se lei legge una conferenza e ne parla oppure se ha elaborato delle cose e ne parla liberamente. Per il lavoro di gruppo vale bensì in misura preminente il come: ciò che importa è l’interiore disposizione d’animo, la veracità interiore. Quando lei legge una conferenza deve del tutto dominarla interiormente. Nel leggerla, deve propriamente produrla di nuovo. E niente affatto un “trebbiar cicli”. E’ spaventoso quando la gente racconta a qualcuno quanti cicli sono stati fatti nel più breve tempo possibile! Non inzeppi mai le teste! Se le riesce di rendere viva negli uomini una sola idea antroposofica, allora qualche cosa è raggiunto!”.

“Lei deve imparare a lavorare partendo dalla sua gente. Lei deve stare in ascolto di ciò che le proviene dai membri, di ciò che è necessario! Se lei può questo, quando poi lei parla o legge traendo dall’elemento esoterico interiormente vivente, allora lei parlerà a tutti e ciascuno giungerà al suo, ciascuno porterà via con sé ciò di cui ha bisogno e con cui può lavorare, non importa se vecchio o giovane, colto o incolto”.

Egli non desiderava discussioni.

“Esse non appartengono alle serate del gruppo. Nelle discussioni viene disciolta in chiacchiera la sostanza – o l’aura – che si può formare nell’esposizione libera e nella lettura”.

Egli sconsiglia anche di rispondere a domande dopo conferenze dinanzi all’assemblea. Nei primi anni della sua attività, egli aveva curato ciò, ma in seguito interrotto.

“Spesso non vi è alcuna vera serietà dietro a codeste domande., che per di più sono la maggior parte male impostate, spesso non sono mosse da alcuna buona intenzione. E’ meglio dichiararsi pronti a risposte private dopo la conferenza”. “Che la teoria della conoscenza non appartenga alle serate di gruppo, nemmeno propriamente quei libri che sono stati scritti per il pubblico (Teosofia, Scienza occulta) che furono posti a base dei corsi introduttivi. Nelle serate di gruppo venga invece internamente approfondito, concretato, ampliato, completato ciò che ivi è stato dato”.

Egli si trattenne esaurientemente sulla formazione delle conferenze, sia di quelle di gruppo che di quelle dinanzi al pubblico. Il contenuto e la forma non vadano disgiunti. Una conferenza informe, male costruita, è cattiva, anche quando il contenuto possa essere esatto nei singoli particolari.

“Esso non si imprime nella mente”. “A tale riguardo, lei farà bene ad elaborare esattamente il principio delle sue conferenze. Poi però lei deve parlare liberamente. Una conferenza letta è un’assurdità”. “Riguardo alla composizione, i nostri conferenzieri lasciano spesso molto a desiderare. Si ha in mente un contenuto, che si domina, e non ci si cura della forma. Nella sua compagine complessiva, una conferenza deve essere trattata come un’opera d’arte. Devono armonizzare le proporzioni interne: principio e fine devono corrispondersi, in certo modo collimare. Una conferenza deve avere un solido asse, intorno al quale si gira, ma dal qual uno si può allontanare soltanto entro le giuste proporzioni”.

Rudolf Steiner accennò perciò alla costruzione delle sue conferenze singole, come dei suoi cicli nel complesso. Egli traccia un asse intorno al quale gira in una spirale ascendente.

“Coll’esercizio progressivo lei avrà soltanto ancora bisogno di fissare il principio e la fine. In mezzo lei si muoverà liberamente entro la forma data. E’ penoso quando un conferenziere perde la pagina e si confonde, si appresta ripetutamente a finire, e ciò fa sbiadire tutto quanto ha detto prima”.

Quando giunse alla fine, il suo sguardo acquistò quella serietà e quella bontà così impenetrabile, nella cui luce uno si ripiegava personalmente in un nulla, mentre vedeva al contempo dinanzi a sé tutte le forze e le possibilità del proprio essere.

Sia sempre cosciente della santa serietà del compito che si è prefisso” – disse – “L’antroposofia è cosa pericolosa se si procede in essa senza questa serietà. Pensi sempre a questo! Ne va dell’avvenire dell’Umanità. Ne va degli uomini che siedono lì dinanzi a lei. Lei deve badare agli uomini. Nell’uomo che siede lì dinanzi a lei, deve amare gli uomini, lei deve amare quest’uomo nascosto come lei ama l’antroposofia.

Ed ancora una volta ripeté le parole del sentimento di povertà interiore dinanzi a ciò che si ha da fare.

Allora lei sentirà l’aiuto del Mondo spirituale”.

Ancora due parole di Rudolf Steiner, che egli espresse in altra occasione ( e più volte in quel tempo).

“Potrebbe essere possibile che una volta l’antroposofia si debba svincolare dalla Società Antroposofica. Non dovrebbe essere, ma ci sarà codesta possibilità”. “Quando io non sarò più qui, verrà una intellettualizzazione della Società antroposofica. Questo è un grande pericolo, poiché significa il ristagno di tutto il movimento. Perciò è così importante la giusta cura del lavoro esoterico interno”. “La gente non sa e in fondo non vuole nemmeno sentirne parlare volentieri, ma è così: quando un uomo se ne sta quieto nella propria stanzetta e con reale serietà interiore, con tutta la dedizione del suo cuore legge, per esempio, il Vangelo di Giovanni o qualche cosa di antroposofico, e lo vive, egli fa di più per la salute del mondo e degli uomini, di taluni che si danno importanza con dei pettegolezzi antroposofici”.

Ed egli aggiunse:

“Ma a questo scopo di deve conoscere la realtà degli Esseri superiori”.

Per farla breve: il lavoro di cui si trattava riuscì. Sarebbe da riferire in particolare sui pomeriggi dei bambini con la pittura, l’euritmia, il canto, i racconti di fiabe. Da ultimo c’erano oltre settanta bambini di tutti gli strati sociali. I nostri corsi d’introduzione e di continuazione erano costantemente bene frequentati e tra gli ascoltatori c’erano sempre dei lavoratori e degli operai. Intorno a Wilhelm Petersen si stringeva un gruppo di studenti, dal quale affluirono poi all’antroposofia le migliori “reclute”. Nella “Casa nuova”, come avevamo denominato la casa Lauer, oltre ad altri hanno ripetutamente parlato in una sala gremita, Albert Steffen, Michael Bauer, Carl Unger, Ernst Uehli, Hermann Beckl. C’erano rappresentazioni pubbliche di euritmia dei bambini e delle allieve adulte, concerti e la rappresentazione natalizia di Oberpfalz fatta da bambini. Nel 1922 le chiassate clericali intralciarono il lavoro dei bambini. A causa dell’inflazione, poco dopo, la casa dovette chiudere i battenti.

Adelheid Petersen

Fonte: Goetheanum nr. 50 del 12 dicembre 1948 (traduzione di Mario Viezzoli)

Copertina: affresco dalla cupola del primo Goetheanum

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