di Andrea Zhok

La risposta è in effetti semplice: nel caso della popolazione israeliana si tratta di una popolazione che ha introiettato educativamente una visione di sé come vittime della storia, come soggetti fragili ed oppressi, che perciò hanno un implicito diritto di “autodifesa preventiva” a 360°.
In sostanza, essendo “noi” in credito con la storia e l’umanità, ci possiamo permettere ciò che altri non possono permettersi. La posizione di vittima esemplare ci pone in una insuperabile posizione di superiorità morale, che semplifica di molto ogni decisione: non devo soppesare torti e ragioni perché tutto ciò che faccio ricade per definizione sotto una forma di “legittima difesa preventiva”.
Basta assumere che l’altro possa rappresentare, da un qualunque punto di vista, una minaccia per me, e io sono legittimato dal mio ruolo di vittima a ricorrere a qualunque forma di iniziativa soppressiva.
Una dinamica perfettamente analoga può essere scorta nelle legittimazioni “progressiste” che fioccano in questi due giorni dell’omicidio di Charlie Kirk. In rete sono visibili un gran numero di dibattiti pubblici con Kirk come protagonista. In tutti quelli che ho visto si vede una discussione autentica, con posizioni ragionate e motivate.
Non bullismo, non violenza verbale, nessuna censura, ed anzi l’esporsi ad un confronto anche parecchio scomodo come quello che avviene quando di fronte hai numerosi studenti universitari su posizioni avverse. Che in alcuni casi lo scrivente concordi con il ragionamento svolto e in altri no, è ovviamente irrilevante.
Nessun confronto di questa qualità è disponibile da decenni, per dire, nel panorama del dibattito televisivo italiano, dove i Talk Show sono arene manipolate dove prevalgono tagli, bullismo, violenza verbale, battute invece di argomentazioni.

Dopo di che in rete circolano una infinita serie di presunti virgolettati in cui le posizioni di Kirk appaiono come attacchi performativi passibili di denuncia come “hate speech”. Ora, conoscendo la severità della legislazione americana a proposito, credo sia legittimo ipotizzare che gran parte di quei presunti virgolettati siano semplicemente dei fake. In alcuni casi la cosa è già emersa (c’è in rete uno scambio abbastanza patetico in cui Stephen King prima attribuisce a Kirk alcune tesi inqualificabili sulla lapidazione dei gay, solo per poi ritirare tutto e chiedere scusa per non aver verificato le fonti).
Come noto esiste in ogni legislazione un confine tra l’argomentazione e il discorso performativo. Se faccio un discorso teorico sul suicidio è una cosa, se consiglio ad un conoscente fragile di suicidarsi è tutt’altra: il secondo è un reato ed è punito dai rigori della legge perché sto usando la parola come un’azione, come una spinta a commettere qualcosa di male (qui un suicidio).
Nelle argomentazioni svolte da Kirk nei campus ciò che traspare spesso è il senso di profonda frustrazione di un uditorio studentesco in generale – spiace dirlo – semplicemente meno sveglio e meno colto dell’opponente. Studenti abituati a darsi reciprocamente ragione su generalizzazioni e luoghi comuni che scoprono, per una volta in cui sono esposti ad un confronto vero, che sanno davvero poco e che hanno capito ancora meno. La frustrazione è comprensibile. Ma la frustrazione non basta a spiegare il fiume di commenti entusiasti, divertiti, soddisfatti, compiaciuti, ecc. di fronte all’assassinio di un intellettuale conservatore che si esponeva a pubblici dibattiti nel mezzo di campus a prevalenza progressista.
Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex.
È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex.
È autore di numerose pubblicazioni, scientifiche e divulgative; tra le pubblicazioni monografiche: “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo” (Jaca Book 2006); “Emergentismo” (Ets 2011); “Critica della ragione liberale” (Meltemi 2020).