Il Fantasma nella Macchina

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di Ryan Perkins

Come la CIA ha creato la sinistra moderna e perché la destra continua a pensare che si tratti di un complotto marxista

Introduzione a The Anatomy of Empire

Stiamo vivendo un conflitto globale di crisi interconnesse: in Ucraina, a Gaza, nel Mar Cinese Meridionale e all’interno dei contratti sociali ormai logori delle stesse nazioni occidentali. Non si tratta di esplosioni isolate, ma delle convulsioni sintomatiche di un impero alle prese con le proprie contraddizioni interne. Tuttavia, una delle crisi più potenti e paralizzanti non si combatte su un campo di battaglia fisico, ma nel regno della cultura e dell’identità. È una guerra sulla storia, sulla verità e sull’anima stessa dell’Occidente, spesso diagnosticata come un complotto dei “marxisti culturali” per sovvertire la civiltà dall’interno.

Questa narrazione è una profonda e pericolosa errata interpretazione della storia. Le radici delle nostre cosiddette “guerre culturali” non si trovano nelle sale del Cremlino, ma nelle sale riunioni di Washington, D.C. e nei corridoi clandestini di Langley. L’amara polarizzazione che consuma la nostra politica non è il frutto di una cospirazione comunista straniera, ma il raccolto involontario e velenoso della campagna americana della Guerra Fredda per salvare l’Occidente dal comunismo.

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Questa serie, The Anatomy of Empire, ha tracciato i motori nascosti del potere che spingono il sistema verso le sue inevitabili crisi. Abbiamo visto come il complesso militare-industriale abbia fuso il capitale con la violenza. Ora passiamo a un motore di controllo più sottile, ma altrettanto formidabile. Sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, mentre i partiti socialisti e comunisti crescevano con una visione di trasformazione materiale basata sulle classi, gli architetti del Secolo Americano presero una decisione fatidica. Non si sarebbero limitati a ricostruire le economie con il Piano Marshall, ma avrebbero forgiato una nuova coscienza. La loro missione era quella di costruire una sinistra alternativa e anticomunista, radicale nella sua estetica ma fondamentalmente individualista, che incanalasse gli impulsi rivoluzionari lontano dall’economia e verso i regni soggettivi della cultura e dell’identità.

Questa è la storia di come la CIA, attraverso fronti come il Congress for Cultural Freedom, abbia strumentalizzato l’arte astratta, la musica atonale e gli intellettuali disillusi per vincere una guerra di idee. È la storia di come questo ecosistema culturale anticomunista, successivamente ereditato da fondazioni come la Ford e la Open Society di Soros, abbia incubato una cultura della critica che alla fine si sarebbe rivoltata contro i suoi creatori liberali. La frammentazione e la politica identitaria che vediamo oggi non sono il frutto di un’ideologia straniera. Sono il fantasma nella macchina del liberalismo occidentale stesso, un fantasma di sua creazione, che ora infesta un mondo che non può più controllare e fornisce la perfetta cortina fumogena ideologica per il potere duraturo dello stesso impero che lo ha generato.

Il fantasma nella macchina: come la guerra fredda ha creato le guerre culturali

Le cosiddette “guerre culturali” di oggi sembrano intensamente presenti, una battaglia caotica sull’identità, la storia e le fondamenta stesse della verità. Dai dibattiti accesi sulla teoria critica della razza e l’ideologia di genere alle continue scaramucce nei campus universitari e sui social media, sembra esserci una fondamentale scissione tra una sinistra progressista “woke” e una destra conservatrice tradizionalista. La narrativa standard, in particolare quella della destra populista, spesso la presenta come una vittoria a lungo termine di una forma di “marxismo culturale”, un complotto deliberato e sovversivo per minare la civiltà occidentale attaccandone i valori e le tradizioni fondamentali.

 

Ma questa narrativa, per quanto convincente, fraintende le vere origini di questo conflitto ideologico. Le radici della moderna sinistra “woke” non si trovano nelle sale del Cremlino, ma nelle sale riunioni di Washington, D.C. e nelle operazioni segrete della CIA.

L’aspra polarizzazione che vediamo oggi non è il culmine di una cospirazione marxista, ma la conseguenza involontaria di una guerra diversa, in gran parte dimenticata: la campagna americana della Guerra Fredda per salvare l’Occidente dal comunismo.

Sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, mentre i partiti socialisti e comunisti guadagnavano popolarità in tutto l’Occidente, i servizi segreti statunitensi presero una decisione fatidica. Per contrastare il fascino materialista della politica basata sulle classi sociali, finanziarono una loro rivoluzione segreta. La loro missione era quella di costruire una sinistra alternativa e anticomunista, radicale nella sua estetica e nel suo fervore intellettuale, ma fondamentalmente individualista, che rifiutasse la coscienza di classe e la politica rivoluzionaria a favore della critica culturale e della trasformazione soggettiva.

Questa è la storia di come la CIA, attraverso facciate come il Congress for Cultural Freedom, abbia strumentalizzato l’arte astratta, la musica atonale e gli intellettuali disillusi per conquistare i cuori e le menti della sinistra europea. È la storia di come questo ecosistema culturale anticomunista, successivamente ereditato da fondazioni come la Ford e la Open Society di Soros, abbia incubato una cultura della critica che alla fine si sarebbe rivoltata contro i suoi creatori liberali. La stessa infrastruttura costruita per immunizzare l’Occidente contro una forma di radicalismo ha inavvertitamente fornito la piattaforma per un’altra.

La seguente storia, cancellata dalla memoria popolare, rivela che la frammentazione, la politica identitaria e le realtà soggettive del nostro momento attuale non sono il frutto di un’ideologia straniera, ma il fantasma nella macchina del liberalismo occidentale stesso, un fantasma che continua a perseguitare i suoi creatori.

L’ondata socialista e comunista del dopoguerra in Occidente (1945-1955)

Sebbene in gran parte cancellati dalla storia, all’indomani della seconda guerra mondiale i partiti socialisti e comunisti di tutto il mondo occidentale conobbero un drammatico aumento di popolarità. La devastazione della guerra, il crollo dell’ancien régime e i ricordi dei fallimenti del capitalismo prima della guerra, come la Grande Depressione, contribuirono tutti a un riassetto politico senza precedenti.

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Dalla Francia all’Italia, dal Regno Unito alla Grecia, le ideologie socialiste, un tempo relegate ai margini dello spettro politico, entrarono nella politica mainstream, sostenute da movimenti di massa di lavoratori, intellettuali e popolazioni stanche della guerra.

Nell’Europa occidentale, i partiti socialisti e comunisti si posizionarono rapidamente come paladini della ricostruzione, della giustizia sociale e della pace. Le vecchie élite furono ampiamente screditate dopo la guerra, macchiate dalla collaborazione o dall’incompetenza. Al contrario, i comunisti avevano spesso guidato i movimenti di resistenza antifascista e ne erano usciti con una maggiore credibilità.

Il ruolo dell’Armata Rossa nella sconfitta della Germania nazista aumentò il prestigio del comunismo e l’Unione Sovietica fu ammirata da molti in Occidente come modello alternativo di sviluppo industriale e forza antifascista.

Negli Stati Uniti, la popolarità del comunismo e dei movimenti socialisti portò alla Seconda Paura Rossa, ovvero la percezione che comunisti nazionali o stranieri si stessero infiltrando o sovvertendo la società americana e il governo federale, provocando un panico che culminò nella Dottrina Truman e in una serie di dure purghe amministrative interne che si conclusero con i processi McCarthy.

Ora cancellato dalla memoria popolare, il decennio successivo al 1945 rimane un momento raro in cui il socialismo rivoluzionario sembrava un futuro possibile per l’Occidente.

Il Piano Marshall (e l’allegato nascosto)

L’ammirazione pubblica per la sinistra socialista si scontrò ben presto con le crescenti tensioni della Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti e i loro alleati lanciarono una campagna sostenuta per sopprimere l’influenza comunista. Il Piano Marshall (1947) mirava a contrastare la popolarità elettorale dei partiti comunisti ricostruendo l’Europa secondo un modello socialdemocratico.

Ma il Piano Marshall andò ben oltre. Nel tentativo di combattere il fascino della politica socialista rivoluzionaria, i servizi segreti americani finanziarono una loro rivoluzione segreta, che ancora oggi, in una certa misura, li perseguita. Si proposero di costruire un ecosistema sociale, culturale e intellettuale anticomunista. Una “sinistra antistituzionale” alternativa che rifuggiva dalla politica di classe e rifiutava la rivoluzione a favore di interpretazioni radicalmente individualiste della trasformazione sociale.

All’inizio degli anni ’50, la Guerra Fredda si era trasformata in una competizione globale, non solo tra eserciti ed economie, ma anche tra idee, estetica e legittimità intellettuale. L’Unione Sovietica offriva una visione della storia, delle classi sociali e del progresso. In risposta, gli Stati Uniti lanciarono la loro offensiva ideologica, non con una propaganda apertamente filocapitalista, ma con la poesia beat, l’arte moderna e oscure riviste di sinistra.

Gli uffici del Piano Marshall, come l’Economic Cooperation Administration (ECA) e successivamente la Mutual Security Agency (MSA), fornirono un supporto logistico fondamentale. Le conferenze, le pubblicazioni e gli eventi del CCF potevano essere facilitati attraverso gli uffici ERP all’estero, mascherando il coinvolgimento diretto della CIA. I fondi venivano talvolta riciclati attraverso conti ERP o fondazioni correlate.

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A orchestrare questa silenziosa guerra di idee era la CIA. Dietro la facciata di fondazioni private, riviste letterarie e conferenze accademiche d’élite, l’Agenzia finanziava un vasto ecosistema di intellettuali di sinistra anticomunisti attraverso il Congress for Cultural Freedom (CCF). In seguito, gruppi come la Ford Foundation e le Open Society Foundations di George Soros avrebbero ereditato elementi di questa missione.

Quello che era iniziato come uno sforzo per promuovere la democrazia liberale e contenere lo stalinismo ha dato vita a una bestia completamente diversa. Finanziando artisti radicali, trotskisti, post-marxisti e accademici scontenti, la CIA contribuì a incubare una cultura della critica che alla fine si sarebbe rivoltata contro il liberalismo stesso.

Oggi, i discendenti ideologici di questo ambiente sono spesso definiti la sinistra “woke”. A molti conservatori, in particolare negli Stati Uniti, essi appaiono come il culmine di una sovversione marxista durata decenni.

Ironia della sorte, le origini di questo movimento non risiedono a Mosca, ma nelle sale riunioni di Washington, Langley e New York.

La creazione del Fronte Culturale Anticomunista

Nel 1950, la CIA lanciò ufficialmente il Congress for Cultural Freedom, una vasta iniziativa volta a coltivare un’élite culturale liberale, democratica e anticomunista in tutto l’Occidente.

Guidato da agenti come Michael Josselson e dall’allora capo del controspionaggio della CIA e amante della poesia modernista James Jesus Angleton, il CCF divenne una superpotenza culturale.

Organizzò conferenze, finanziò scrittori e artisti e sovvenzionò oltre 20 prestigiose riviste, tra cui Encounter (Regno Unito), Der Monat (Germania) e Preuves (Francia). Finanziò traduzioni di libri, mostre d’arte ed eventi accademici. Alla fine degli anni ’50 era diventato quello che Frances Stonor Saunders, nel suo fondamentale libro del 1999 Who Paid the Piper?, definì “il più importante mecenate della vita intellettuale nell’Europa occidentale”.

La missione era chiara: conquistare i cuori e le menti sostenendo una sinistra che rifiutava il comunismo, la coscienza di classe e il conflitto di classe; una sinistra che non metteva in discussione la struttura materiale del capitalismo, ma conservava l’aura del radicalismo intellettuale. A differenza della destra americana, che vedeva il socialismo come un monolite, la CIA distingueva tra diverse sfumature di rosso. I comunisti disillusi, i trotskisti, i socialdemocratici e gli ex marxisti erano visti come utili contrappesi all’analisi di classe marxista.

Una sinistra borghese e rispettabile che beveva caffè espresso nei caffè di Parigi, non vodka nelle sale del Cremlino.

Trotskisti, artisti astratti, musicisti atonali e la strana nuova sinistra

Molti dei pensatori che la CIA sosteneva attraverso intermediari erano in precedenza allineati con il marxismo o il trotskismo. Irving Kristol, co-editore di Encounter e in seguito figura fondatrice del neoconservatorismo, era stato un giovane trotskista. Arthur Koestler, autore di Darkness at Noon, era un ex membro del Comintern diventato polemista antisovietico. Loro, e molti come loro, divennero mercenari ideologici nel campo di battaglia delle idee della Guerra Fredda, ricompensati non solo con stipendi, ma anche con prestigio e visibilità.

Ma non furono solo le idee a essere finanziate, ma anche l’estetica. In uno dei capitoli più surreali della Guerra Fredda, la CIA sostenne segretamente l’Espressionismo Astratto, un movimento artistico allora considerato radicale, anticonformista e provocatoriamente individualista. Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem de Kooning, oggi considerati artisti americani per eccellenza, furono promossi a livello internazionale come prova che le società liberali potevano produrre creatività d’avanguardia, libera dalla censura o dal realismo socialista.

Anche la musica fu utilizzata come arma. Le composizioni atonali e dodecafoniche di Arnold Schoenberg e Pierre Boulez furono promosse in tutta Europa come metafora dissonante di libertà e complessità. I sovietici preferivano Čajkovskij e gli inni sinfonici socialisti; la CIA offriva dissonanza e spontaneità.

Pierrot lunaire Op.21 : I Mondestrunken · Giuseppe Sinopoli di Arnold Schoenberg

Sebbene gli artisti e i compositori spesso non avessero idea che le loro carriere fossero state promosse da Langley, il sostegno istituzionale plasmò il prestigio culturale e il terreno intellettuale che ne seguì.

La Scuola di Francoforte e l’espansione della critica culturale

Mentre la CIA finanziava quella che considerava la sinistra anticomunista “rispettabile”, un’altra corrente intellettuale, parallela ma non scollegata, fermentava nel mondo accademico americano.

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La Scuola di Francoforte, formalmente nota come Istituto per la ricerca sociale, era fuggita dalla Germania nazista negli anni ’30 e si era ricostituita alla Columbia University di New York. Pensatori come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e, più tardi, Jürgen Habermas rifiutarono la politica di classe e tentarono di reinterpretare il marxismo attraverso la lente della cultura, della psicologia e dell’ideologia.

Insoddisfatti del modello sovietico di Stalin e scettici nei confronti della democrazia capitalista, sostenevano che la cultura, e non la classe, fosse il nuovo campo di battaglia. Attaccarono i mass media, il consumismo e la razionalità tecnocratica come strumenti di controllo sociale. Il loro lavoro gettò le basi teoriche di quella che sarebbe poi diventata la teoria critica, la politica identitaria e il pantano del discorso moderno sulla “giustizia sociale”.

Sebbene la CIA non finanziasse direttamente la Scuola di Francoforte – anzi, il rapporto era talvolta ostile – la sua infrastruttura culturale creò un’atmosfera in cui le loro idee potevano prosperare. Gli investimenti dell’Agenzia nella libertà accademica, nei dipartimenti di scienze umane e negli intellettuali anticomunisti aprirono la strada a critiche radicali al capitalismo che tornarono a essere argomento di conversazione, sebbene attraverso una lente culturale piuttosto che di classe.

Alla fine degli anni ’60, Herbert Marcuse era diventato il guru della Nuova Sinistra, con opere come L’uomo ad una dimensione che denunciavano sia le società capitaliste che quelle comuniste come sistemi di repressione. La sua idea più duratura, la tolleranza repressiva, sosteneva che la tolleranza liberale consentisse il dominio permettendo il fiorire di idee reazionarie. Questo paradosso divenne un principio centrale del radicalismo universitario e in seguito dell’ortodossia progressista.

Herbert Marcuse, 1977, la Scuola di Francoforte.

La rivoluzione hippie: non in fabbrica, nella tua testa

I semi ideologici piantati dal Congress for Cultural Freedom e dai suoi mecenati trovarono la loro fioritura più vivace e inaspettata nel movimento hippie degli anni ’60, un fenomeno alimentato da una potente forza demografica: l’arrivo alla maturità della massiccia generazione del baby boom del dopoguerra. Questa coorte senza precedenti di giovani, concentrata nei campus universitari, rappresentava una potenziale bomba a orologeria per l’ordine capitalista consolidato. Se questa generazione fosse stata mobilitata da un movimento socialista tradizionale e consapevole delle classi sociali, avrebbe potuto rappresentare una minaccia fondamentale e concreta per il sistema. Invece, l’ideologia soggettivista incubata dalla sinistra anticomunista ha efficacemente disinnescato questa bomba demografica.

I principi fondamentali del movimento hippie – sfiducia nell’autorità, rifiuto della cultura consumistica materialista e ricerca della liberazione personale attraverso le sostanze psichedeliche, la liberazione sessuale e la spiritualità orientale – rispecchiavano perfettamente la divergenza chiave finanziata dalla CIA: un radicalismo che abbandonava la coscienza di classe per una trasformazione soggettiva. Mentre i beatnik erano stati l’avanguardia intellettuale, gli hippie divennero l’esercito culturale di massa di questa nuova sinistra. L’Agenzia aveva un tempo finanziato l’arte astratta e la musica atonale per dimostrare la libertà creativa dell’Occidente; un decennio dopo, gli eredi di quella ribellione estetica creavano poster psichedelici e inni rock dissonanti non per il Dipartimento di Stato, ma contro la guerra del Vietnam e il “sistema”.

Questo passaggio dal materiale al culturale e spirituale fu la vittoria definitiva, anche se non intenzionale, del progetto della CIA. I baby boomer non cercavano di impadronirsi dei mezzi di produzione, ma di trasformare la coscienza umana stessa. L’adesione degli hippie alla trasformazione personale e al gesto simbolico piuttosto che alla solidarietà di classe incanalò l’energia rivoluzionaria di una generazione lontano dalla struttura economica e verso il regno soggettivo. Questa diversione, pur sfidando le norme borghesi, frammentò l’azione collettiva e lasciò intatto l’ordine capitalista fondamentale. La rivoluzione non era nella fabbrica, ma nella tua testa: un concetto che servì a neutralizzare la minaccia demografica dei baby boomer, anche se creò l’apparenza di una rottura radicale.

Da guerrieri freddi a rivoluzionari del campus: le fratture del quadro ideologico

Negli anni ’70, questo ecosistema intellettuale anticomunista aveva iniziato a frammentarsi. La guerra del Vietnam, le lotte per i diritti civili e le crisi economiche portarono una nuova generazione a mettere in discussione non solo il comunismo di stampo sovietico, ma anche il liberalismo americano.

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I radicali dei campus che avevano letto Marcuse e Fanon cominciarono a prendere di mira non Stalin, ma il Pentagono, Wall Street e le sale riunioni delle università.

Ironia della sorte, lo fecero dall’interno delle istituzioni costruite dal liberalismo della Guerra Fredda e spesso finanziate da esso.

Molti avevano ottenuto incarichi accademici grazie al boom di espansione universitaria degli anni ’50 e ’60, a sua volta sostenuto dallo Stato di sicurezza nazionale e da organizzazioni filantropiche come la Fondazione Ford.

La Ford, che aveva collaborato con la CIA all’inizio della Guerra Fredda, continuò a finanziare programmi sulle relazioni razziali, gli studi sulle donne, la teoria postcoloniale e lo sviluppo internazionale fino agli anni ’80.

Queste sovvenzioni hanno involontariamente sostenuto critiche radicali all’egemonia occidentale, al patriarcato e al capitalismo, i pilastri intellettuali di quella che sarebbe diventata nota, dai suoi nemici, come “ideologia woke”: politica identitaria, intersezionalità e critica sistemica.

Entra Yuri Bezmenov

Yuri Bezmenov era un informatore del KGB e un sedicente esperto di propaganda che disertò in Occidente negli anni ’70. Dopo essersi stabilito in Canada e aver lavorato con la CIA e altre ramificazioni della comunità di intelligence occidentale, iniziò a tenere conferenze e interviste mettendo in guardia da una strategia sovietica a lungo termine di “sovversione ideologica” – o “misure attive”, come le chiamava lui – per minare gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali dall’interno.

Bezmenov, che molto probabilmente era un agente di basso livello del KGB e un opportunista, sosteneva di avere una conoscenza approfondita della politica estera e di spionaggio sovietica.

Bezmenov sosteneva che l’Unione Sovietica fosse impegnata in un programma a lungo termine di sovversione ideologica. Un processo lento e sistematico volto a cambiare la percezione della realtà da parte della popolazione interna, in particolare attraverso il mondo accademico, i media e le istituzioni culturali.

Egli identificò le quattro fasi principali della sovversione come segue:

1. Demoralizzazione – Minare i valori e l’identità nazionale (richiede 15-20 anni).

2. Destabilizzazione – Prendere di mira l’economia, le relazioni estere e i sistemi di difesa (2-5 anni).

3. Crisi – Un violento cambiamento di potere o di struttura.

4. Normalizzazione – Un nuovo regime consolida il controllo con il pretesto di ripristinare l’ordine.

 

Yuri Bezmenov, 1984, spiega la strategia a lungo termine dell’Unione Sovietica per sovvertire l’Occidente.

Egli sosteneva che la maggior parte del lavoro dei servizi segreti sovietici non fosse spionaggio nel senso tradizionale del termine, ma fosse finalizzato a influenzare l’opinione pubblica e l’ideologia.

La fantasia di Bezmenov convinse gli elementi conservatori più inorriditi dall’emergente “sinistra anti-establishment” che il mostro che temevano fosse una cospirazione comunista ispirata dal Cremlino.

Le sue affermazioni erano perfettamente in sintonia con lo Zeitgeist del programma “Morning in America” del neoeletto presidente Ronald Reagan e con la più ampia e strisciante paranoia dell’establishment che il sistema stesse andando fuori controllo.

 

Donald Rumsfeld, sulle armi di distruzione di massa nel 1976 e nel 2002. La cospirazione di Bezmenov alimentò il progetto ideologico neoconservatore.

Questa fantasia meticolosamente costruita rafforzò le affermazioni di un nascente movimento neoconservatore determinato a intensificare le tensioni della Guerra Fredda, assicurò il sostegno degli elementi più paranoici dello Stato di sicurezza e gli valse un posto nella cerchia delle celebrità della comunità dell’intelligence statunitense.

Ma la sua eredità duratura fu quella di cementare l’esistenza di una teoria cospirativa marxista di lunga data tra gli ideologi populisti di destra.

Open Society, la globalizzazione della critica culturale e il crollo della realtà oggettiva

Il sentimento anti-establishment tollerato e sponsorizzato dallo Stato dell’intelligence ha incoraggiato la critica al capitalismo a essere vista attraverso una lente culturale. Mai attraverso una lente di classe. Ha finito per sposare una trasformazione radicale della società non attraverso la coscienza di classe o l’analisi materiale delle forze produttive, ma attraverso la trasformazione radicale – e in ultima analisi soggettiva – dell’individuo.

Interdetta dal mettere in discussione la struttura materiale del capitalismo, la sua visione enfatizzava i gesti simbolici, le scelte estetiche e sosteneva un’interpretazione soggettiva della realtà.

Con la fine della Guerra Fredda, entrò in scena un nuovo attore: George Soros e la sua Open Society Foundations. Nei paesi post-socialisti dell’Europa orientale, Soros iniziò a investire miliardi nell’istruzione, nella società civile e nelle iniziative dei media. Negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, ha finanziato dipartimenti accademici, iniziative di giustizia sociale e attivismo per i diritti trans. A differenza della CIA, Soros non ha fatto mistero della sua missione e la sua ambizione era globale.

La linea che va dal CCF alla Ford a Soros non è di causalità diretta, ma di ecologia istituzionale. Ciascuno ha costruito sulle reti e sulle ipotesi del precedente. Ciascuno ha giustificato i propri mezzi sostenendo che la propria versione di “libertà di pensiero” era il miglior baluardo contro il comunismo e quindi il modo migliore per preservare la struttura di potere dell’Occidente.

Il risultato è stata un’élite globale di professori, giornalisti, artisti e attivisti immersi nella critica sociale, nel relativismo, nella soggettività e nell’urgenza morale.

Sebbene ancora permeata dall’eredità culturale del CCF e della sinistra radicale da esso ispirata, la rete di ONG e organizzazioni mediatiche dell’Open Society di George Soros è diventata uno strumento per rimodellare la realtà in qualcosa che si adatta e si conforma alle necessità del capitale globale.

La costante frammentazione dell’identità di gruppo e la spirale discendente della soggettività hanno creato una società atomizzata di individui isolati e privi di potere, che ha reso la società immune alla solidarietà.

Promuovendo il cambiamento estetico come rivoluzione e concentrandosi sulla soggettività dell’esperienza umana individuale, è caduta nel nichilismo. Il pensiero di sinistra moderno è diventato plastilina ideologica che può essere rimodellata per adattarsi alle esigenze dell’élite al potere.

È diventato un meccanismo di controllo sociale per le società disilluse dalla democrazia che era stata loro promessa, alienate dalla loro élite al potere – e l’una dall’altra – e sempre più sprezzanti nei confronti dei tecnocrati che ora governano con scarsa pretesa di legittimità.

Il mito persistente di un complotto marxista

Grazie al contributo di mercenari intellettuali, truffatori, opportunisti, spie, fanatici e propagandisti pagati, molti conservatori credono ancora che la “sinistra moderna” faccia parte di una grande cospirazione marxista per sovvertire la società. In effetti, il “marxismo culturale” è diventato un insulto generico per l’accademia e l’attivismo di sinistra.

Sebbene la CIA non abbia direttamente inventato la teoria critica della razza, l’attivismo per i diritti dei trans o le altre estremità della sinistra moderna, finanziando la creazione di un ecosistema intellettuale artificiale e anticomunista, ha contribuito a finanziare l’infrastruttura della critica – filosofica, artistica e istituzionale – che ha dato vita alla sinistra culturale moderna.

Quell’eredità, ora frammentata e riadattata per soddisfare le esigenze del capitale globale, continua a servire non solo come baluardo contro il comunismo, ma anche contro qualsiasi forma di azione collettiva volta a fermare l’esercito di tecnocrati anodini e gestori di hedge fund cleptocratici che barcollano verso una distopia apocalittica.

31 Ottobre 2025

Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare

Fonte: https://ryanperkins.substack.com/p/the-ghost-in-the-machine?utm_source=share&utm_medium=android&r=eduw8&triedRedirect=true

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