Il Ragazzo e l’Airone

RagazzoAirone
di Erio Bronzi

Stavolta il vecchio Hayao mi ha messo nei guai. Altre volte ho avuto l’occasione di scrivere le mie sensazioni su un’opera di Miyazaki, non solo per il brivido della temerarietà di recensire l’opera di un Maestro, ma anche per il piacere di addentrarmi nei meccanismi delle meraviglie che ha sempre saputo donare al Mondo. Ma temo proprio che stavolta il compito sia più arduo del solito, perché ciò che ha creato ora è estremamente sfuggente, per cui la difficoltà consisterà non tanto nel commentare, quanto nel comprendere “cosa” dovrei commentare, “cosa” in realtà ho davanti agli occhi. A mia parziale discolpa, ho la sensazione che la responsabilità di tutto ciò sia sua, e che questa difficoltà sia stata da lui deliberatamente voluta, nonché pianificata a tavolino. Ma non per mera bizzarria, o per problemi comportamentali legati all’età: sono convinto che ci sia sotto ben altro. Ma procediamo con ordine.

Almeno in Italia, parrebbe che Il ragazzo e l’airone abbia avuto un’accoglienza quasi trionfale, cosa che non era mai accaduta, neanche per le più valide tra le opere del Maestro. Per almeno due settimane il film è stato in cima gli incassi, primo film di animazione, nella storia italiana, a raggiungere questo traguardo. La critica si è sdilinquita in lodi unanimi, con una uniformità ed una convergenza di giudizi, raramente esibiti in altri casi. Una lettura superficiale delle recensioni porterebbe quindi a ritenere di essere di fronte ad un indiscutibile capolavoro.

Ma io ho letto con attenzione tali contributi, e ne ho ponderato le parole, che talvolta, se esaminate una ad una, portano ad una lettura diversa da quella che il discorso complessivo sembrerebbe indicare. Queste recensioni sono dense di considerazioni del tipo “Miyazaki ci stupisce ancora una volta”, oppure “film denso di significati”, o ancora “viaggio onirico nel mondo di Miyazaki”, o anche “coinvolgente, mistico, simbolico”, e via complimenti di questo tipo. Ma tutti indiretti. Mi è balzato agli occhi che non uno di questi estensori ha usato termini decisi, inequivocabili e privi di remore, quali “bellissimo”, “meraviglioso”, “capolavoro”, “fantastico”, “entusiasmante”, e simili, che erano stati usati per molti dei suoi precedenti lavori. Quando uscì La città incantata, qualcuno scrisse, giustamente, “una gioia per gli occhi e per il cuore”. Stavolta non ho letto niente che solamente si avvicini ad una lode così profonda ed incondizionata.

E qui, pieno di dolorosa contrizione, non posso fare a meno di rilevare come in effetti, in questo film, non sia piacevole abbandonarsi alla meraviglia ed alla stranezza degli eventi, come in altre opere del Maestro. In Mononoke e nella Città Incantata, od anche in Laputa, si viaggia senza remore e con immenso piacere in un mondo fantasmagorico, denso di significati (peraltro non troppo occulti), ma fiancheggiato sempre da un filo logico e razionale, dal quale è bello lasciarsi guidare perché si è sempre coscienti del quadro globale degli avvenimenti, anche lì dove il fantastico ed il meraviglioso la fanno da padroni. Si viene trasportati in aria, sulle ali dell’immaginazione più sfrenata, e non si ha paura di cadere, perché si sa dove si sta andando. Qui invece il volo dell’immaginazione sembra stentato, confuso. L’atmosfera è cupa, le presenze spiritiche aleggiano non amichevoli, il filo logico e razionale, che dovrebbe guidare e sorreggere lo spettatore, è aggrovigliato. Sfilano una serie di immagini impressionistiche, fine a se stesse, come in un caleidoscopio. Ma non bastano alcune fantasiose e rutilanti inquadrature per fare un capolavoro. Sfidando lo stormo di anatemi, a questo punto certamente già in volo verso la mia persona, cercherò ora di addentrarmi più in profondità in questo vero e proprio enigma che è Il ragazzo e l’airone, e tenterò di inquadrarlo in una mia interpretazione razionale.

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Parto, profondamente perplesso, col rilevare che (come appena accennato) il film è una sequenza di quadri e scene chiusi in se stessi, e spesso slegati da qualunque connessione con il resto della storia. Protagonisti, circostanze ed oggetti che compaiono all’improvviso, privi di un motivo apparente della loro presenza, poi, senza spiegazioni, svaniscono nel nulla per tutto il resto del film. Frasi, dialoghi e scene talmente contraddittorî da apparire, ad un primo esame, come grossolani “buchi” di sceneggiatura. E ciò non sembra credibile, poiché consta che Hayao non sia ancora rimbambito. Quindi una possibile interpretazione razionale di questa opera deve risiedere altrove. Ma seguiamo nei particolari tutti questi momenti apparentemente assurdi, poiché alla fine potrebbe uscirne fuori la misteriosa chiave di lettura, che di primo acchito sembra totalmente sfuggente.

Iniziamo dalla scena in cui il protagonista Mahito ed il padre arrivano da Tokio nella località di residenza della donna con cui lui si è risposato dopo la morte della madre di Mahito. Questa donna si scoprirà, solo dopo un po’, essere la zia del ragazzo, cioè la sorella della madre. Però dai saluti tra lei ed il ragazzo si capisce inequivocabilmente che è la prima volta che si incontrano. Cioè, nei circa 12 anni di vita del ragazzo, le due sorelle non si erano mai viste? Non avevano mai fatto visita l’una all’altra? Mistero.

Nel primo quarto d’ora, Mahito non dice una parola, né cambia espressione. Sembra autistico. Va bene che è stato traumatizzato dalla morte della madre, ma questo rallenta fastidiosamente il ritmo già soporifero dell’inizio, e mette il ragazzo sotto una luce quasi patologica, marchiando negativamente certi suoi successivi comportamenti. Perché questa scelta? Mistero.

Ad un certo punto, il ragazzo entra in un salone dove c’è un uomo anziano inginocchiato vicino ad un altro uomo, disteso a terra ed apparentemente molto malato. Non sapremo mai chi è, e se sia veramente malato, perché non comparirà mai più. Mistero.

La zia apre la valigia portata con sé dal padre di Mahito. Contiene scatolame vario, che lei distribuisce alle sette anziane governanti della casa, le quali vi si gettano sopra con evidente voracità. Le teneva forse a digiuno? Le nutre comunque di solito con cibi in scatola? E c’era bisogno che glieli portasse il marito da Tokio? Mistero.

La residenza è grande e lussuosa, la camera del padre e della zia è praticamente un appartamento. Ma la stanza che viene assegnata a Mahito sembra quella di una pensione di terza categoria. Forse in Giappone si usava così per i primogeniti? Mistero.

A colazione il padre di Mahito, dopo avere osservato con evidente soddisfazione che la sconfitta giapponese di Saipan (20.000 morti) avrebbe aumentato le commesse per la sua fabbrica (sic), dice al figlio che lo accompagnerà al primo giorno di scuola con l’auto. Considerando che i compagni sono tutti contadini, la cosa è di una cafoneria da parvenu, a parte il fatto che solo un coatto come lui potrebbe non rendersi conto che così farà odiare il figlio da tutti. Infatti, appena uscito da scuola lo menano. Perché questa caduta di stile? Mistero.

Dopo la rissa, da cui Mahito esce tutto sommato non troppo malconcio, il ragazzo raccoglie una pietra e se la sbatte sulla tempia, provocandosi una vistosa ferita. Alcuni commentatori ipotizzano che sia per non tornare a scuola, ma sembra una interpretazione illogica (una volta guarito dovrà comunque tornarci). Il vero motivo appare a tutti gli effetti ignoto, e tale rimarrà. Mistero.

Mahito scende allo stagno, armato di bastone, alla caccia dell’airone, nei confronti del quale nutre un (misterioso, ovviamente) sentimento di odio. Mentre l’airone cerca di indurlo a seguirlo, arriva la zia (con lo stuolo delle anziane governanti), e scocca una freccia dalla (misteriosa) doppia punta, che mette in fuga l’airone ed altre surreali creature. Allora la zia conosceva già l’airone quale essere pericoloso? Ma se poco prima asserisce che è la prima volta che l’uccello si avvicina alla residenza! Mistero.

Dopo la fuga dell’airone, Mahito sviene. Non sono noti i motivi. Mistero, tanto per gradire.

Mentre Mahito è nella sua stanza, vede dalla finestra la zia che, in vestaglia, si addentra nel bosco. Richiamata da quale forza? Non lo sapremo mai. Mistero. E come può muoversi così in scioltezza, se poco prima era allettata, con gravi malori causati dalla gravidanza? Mistero.

Riuscito a penetrare in una (misteriosa) torre, dimora dell’airone, Mahito viene sprofondato in un mondo parallelo. La prima cosa cui si trova di fronte è una costruzione simile ad un enorme dolmen, verso il quale viene sospinto da uno stormo di minacciosi pellicani, intenzionati a mangiarlo (? Mi sarebbe piaciuto vedere come…). Viene in suo aiuto un personaggio che (valga come notazione collaterale) viene presentato in maniera estremamente sgradevole. Esteriormente è in tutto e per tutto un uomo, con un viso maschile lungo e spigoloso, ed apparentemente senza seno. Parla però con voce di donna, e Mahito gli si rivolge sin da principio al femminile. Questa confusione di generi è quanto mai fastidiosa. D’accordo che Hayao si era già esibito in una analoga, sconcertante stranezza quando aveva affidato la bellissima canzone Mononoke Hime (dedicata da un uomo ad una donna) ad un sopranista (!). Erano però tempi non sospetti. Ma al giorno d’oggi una acrobazia del genere, non giustificata da alcuna necessità narrativa, sembra volere omaggiare il piano dei Signori del Mondo, volto a distruggere l’identità sessuale, la famiglia, la tradizione, insomma tutto ciò che costituisce l’essenza dell’Occidente (e non solo).

E questo non mi è assolutamente piaciuto.

Tecnicamente, potremmo annoverare anche questo tra i misteri, poiché non posso e non voglio pensare che Hayao si sia fatto infatuare dal politicamente corretto, o dall’ideologia “woke”, o dalla cancel culture. In ogni caso, l’androgino scaccia i pellicani, poi esorta Mahito ad allontanarsi rapidamente, poiché “lo spirito della tomba potrebbe svegliarsi”. Non sapremo mai di chi è la tomba, perché è lì, chi o che cosa è “lo spirito della tomba”, in quanto non se ne farà più cenno. Mistero.

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L’androgino fa salire Mahito sulla sua barca, con la quale pescano un enorme pesce. Compaiono molte barche in cui i rematori sono esseri con volto scuro e sdoppiato, indistinguibile. L’androgino dice che sono lì per comprare il pescato, ma non comprano niente. Non si sa chi sono o cosa rappresentano, e non compariranno mai più. Mistero.

Mahito, nella nave-casa dell’androgino, si addormenta e si sveglia circondato da statuette che rappresentano le vecchie governanti (?). L’androgino gli dice che sono lì per proteggerlo, mentre poco prima ha asserito di non sapere cosa c’è nel mondo “di sopra”. Incomprensibile commistione tra i due mondi. Mistero.

Mahito chiama per nome l’androgino, che gli chiede come faccia a conoscerlo. Il nome è quello di una delle sette governanti della residenza. Mahito risponde solo che la vecchia che porta il suo nome è anziana (?). La vecchia avrà ottant’anni, l’androgino non più di trenta. Ovviamente nessuna somiglianza tra loro. Nessuna idea di come Mahito possa averli collegati. Mistero.

Alla residenza stanno cercando Mahito, la zia ed una domestica, che sono spariti. Una governante rivela al padre di Mahito che la torre non è stata ideata da esseri umani, ma costruita intorno ad un enorme meteorite caduto dal cielo. Il prozio ci avrebbe fatto edificare sopra la torre. Ma quando i protagonisti penetrano nella torre, nella quale vivono molte avventure, trovano una struttura essenzialmente vuota, con una scala a spirale che sale fino in cima. Il meteorite, pace all’anima sua, è sparito. E non ricomparirà più. Mistero.

Mahito arriva alla sala dove è tenuta la zia in attesa del parto. Cerca di portarla via, ma lei gli urla di andarsene e gli dice che lo odia. Vi piacerebbe sapere perché? Anche a me. Mistero.

Mahito arriva alla presenza del prozio, che sta impilando tredici blocchetti di pietra, come quelli delle costruzioni per bambini (!). Ogni tanto ne sposta uno con un colpetto di bacchetta, cercando di farli rimanere in equilibrio, e dice che da quello dipende la sopravvivenza di quel mondo (?). Oscar per la situazione più criptica dell’anno in un film. Mistero.

Il prozio mostra a Mahito una enorme pietra rugosa, sospesa in aria, e gli dice che ha originato quel mondo e tutti i suoi poteri. E’ tutto. Non si sa e non si saprà mai cosa è la pietra, chi o cosa rappresenta, da dove viene. Mistero.

Il prozio propone a Mahito di divenire il suo successore, e di continuare la sua opera, e di salvare così quel mondo. Però sarebbe anche gradito che spiegasse cosa ci trova da salvare in quel mondo, pieno di anime di defunti, di esseri senza volto, di pellicani carnivori, di indecifrabili wara-wara e di parrocchetti giganti (!!!), pronti a macellare e cuocere chiunque capiti loro a tiro. Mistero.

Ma possiamo farci mancare un ultimo, esilarante arcano? Nel finale la torre crolla, un enorme stormo di pellicani deborda nel nostro mondo, e punta dritto su Mahito, il quale, con il piglio di chi sta indicando la via di salvezza, grida loro allegramente “Da questa parte!” (cosa che stanno già facendo, per cui lo ignorano), manco fosse Nobile alla Tenda Rossa che spara razzi di segnalazione per la pattuglia dispersa tra le brume dell’Artico. Sorvoliamo, per pietà, sul fatto che i pellicani Mahito se lo sono quasi mangiato, mentre lui li accoglie cordialmente, come vecchi compagni.

E quanto a misteri, mi sembra che possa bastare. Come dicevo, un coacervo di situazioni tra loro separate e di incongruenze. Moltissimi commentatori hanno cercato di salvarsi in angolo, come si dice, opinando che si tratti di visioni simboliche. Questa è la scusa di ogni recensore che non abbia assolutamente capito di cosa si stia parlando, ma non vuole offendere l’autore e l’opera, o peggio passare per ignorante o testone. In realtà, un simbolo è tale solo se associato ad un simboleggiato, altrimenti è troppo facile definire simbolo tutto quello che non comprendiamo. Ed in questo caso i simboli del film (se tali sono) non possono essere associati assolutamente a niente di comprensibile allo spettatore. Lo dimostra il fatto che i recensori hanno individuato un numero enorme di presunti simboli (la torre, l’airone, il meteorite, i pellicani, i parrocchetti giganti, il prozio, la tomba, gli esseri senza volto, i pesci e le rane che assalgono Mahito, i wara-wara, la gravidanza della zia) ed un numero analogo di possibili simboleggiati: Miyazaki, Takahata, il figlio di Miyazaki, il nipote di Miyazaki, la madre di Miyazaki (è notissimo il trauma di Hayao, la cui madre visse in ospedale per otto anni), la nascita, la vita, la morte, il percorso di formazione di un giovane, le divinità del Giappone.

Solo che, in assenza di collegamenti plausibili, li hanno associati totalmente a casaccio, come mescolando un mazzo di tarocchi, accoppiando arbitrariamente simboli e simboleggiati a seconda delle impressioni personali del commentatore, e senza ovviamente arrivare a nulla. Purtroppo, la mia sensazione è che i recensori di oggi si siano espressi come hanno fatto, solo per paura di una scomunica. Dopo che il mondo aveva sul serio temuto il definitivo ritiro di Hayao, dopo che questa opera era stata attesa per dieci anni, dopo la sensazione, ormai tristemente verosimile, che stavolta sia veramente l’ultima, nessuno avrebbe osato pronunciare una parola che non fosse positiva. Ma, nel contempo, non hanno potuto fare a meno di far intendere chiaramente che questa parola non poteva neanche essere entusiastica. Ecco perché il fiorire di elogi perifrastici, di dichiarazioni ad effetto, ma prive di un vero giudizio. Il quale non avrebbe potuto che essere estremamente perplesso, poiché questo film è un enorme puzzle, dai pezzi molto belli, se presi uno ad uno, ma tutti diversi e scarsamente combacianti tra di loro. Ed una volta che si sia in qualche modo completato (terminata cioè la visione), la figura complessiva appare estremamente nebulosa.

Ma proviamo ora a vedere tutto da una angolazione diversa. Se gli elementi di questo film non sono associabili ad un simboleggiato, allora non sono simboli. Ma un evento strano che non è un simbolo (cioè non è legato ad una realtà) è un sogno. In effetti, tra le attività umane solo i sogni sono spessissimo tali da non simboleggiare nulla (nonostante chi cerca di interpretarli), ma sono solo valvole di sfogo per un qualche contenuto subliminale non “digerito”, non metabolizzato, forse traumatico, certamente tale da avere impressionato profondamente il soggetto.

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Se sogna ripetutamente qualcosa, un essere umano vuole liberarsi di un evento che lo ha marchiato a fuoco. Con questa lettura, ecco che i presunti simboli diventano tutti riferimenti di Miyazaki a se stesso, tutte proiezioni dei suoi sogni, dei suoi traumi, delle sue “fissazioni” (sì, ne ha anche lui). Alcuni sono ben individuabili: il trauma della madre lo conosciamo tutti, come le sue manie per l’ecologismo, per l’antimilitarismo, per il culto del lavoro come valore indispensabile per essere accettati nella società. Il padre di Miyazaki aveva una fabbrica di parti per aerei, come il padre di Mahito. Hayao stesso ha raccontato che la Yubaba/Zeniba della Città Incantata origina da una vecchia dalla grossa testa che vide da piccolo. Ma molte proiezioni sono e resteranno solo sue: certi ricordi se li è tenuti per sé tutta la vita (è un uomo di pochissime parole). In Giappone esistono molti monumenti megalitici di tipo dolmen, la cui forma è quella della tomba visitata da Mahito, ed anche della sala parto della zia (interessantissimo, la vita e la morte nello stesso scenario! Questo sì che potrebbe essere un ghiotto simbolo!). La scena che si presenta dopo la caduta del meteorite, è identica alle immagini che conosciamo del cratere del famoso “oggetto” della Tunguska, con tanto di alberi bruciati. E chi ci impedisce di pensare che Miyazaki da piccolo sia stato “attaccato” da uno stormo di parrocchetti, che ad un bambino saranno sembrati grandi e cattivi, o che abbia un giorno visto un uomo disteso e malato, e che ne sia rimasto profondamente colpito, o che abbia assistito alla scena di alcune donne anziane che mangiavano avidamente scatolame, o che si sia un giorno inferta una ferita per non andare a scuola? Alla fine, chi ci impedisce di pensare che i ricordi alla base di queste scene incomprensibili siano solo suoi, e che deliberatamente non abbia voluto dividerli con alcuno? E se i quadri “simbolici” fossero semplicemente onirici? E se avesse solo voluto mettere in scena ciò che ribolliva nel suo subliminale, per liberarsene, in modo quasi felliniano, si parva licet componere magnis (laddove il “parva” è Fellini, beninteso)?

D’accordo, sono solo congetture, che valgono quanto qualsiasi altra. Ma a me sembra che seguano una strada più credibile di quelle percorse dalla torma dei commentatori (pervasi da timore reverenziale, alla sola idea di osare scavare dentro gli intimi recessi mentali del Maestro), e che tutto sommato forniscano spiegazioni che si adattano in maniera molto interessante ai dati che abbiamo a disposizione, donando forse razionalità ad un’opera altrimenti quasi incomprensibile..

In definitiva, a me piace pensare che il vecchio Hayao si sia divertito a gettare sul tavolo, alla rinfusa, i propri fantasmi (almeno quelli ignoti alla massa), per esorcizzarli, ben sapendo che così avrebbe spaventosamente confuso i propri seguaci, e che, ridendo sotto i baffi, avrebbe detto loro:

“E’ inutile che vi lambicchiate il cervello, stavolta questa storia non è anche vostra, ma solo mia”.

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