Le miserevoli sorti e progressive della nostra sanità

In questi difficili mesi da che l’incubo Covid è iniziato siamo stati tutti trascinati in un turbine di preoccupazioni e di difficoltà.
Sia chi è stato travolto dalle situazioni contingenti e non ha potuto mantenere una “centratura” per tentare di comprendere in maniera consapevole quanto stava accadendo che anche chi, pur cercando di utilizzare i “lumi della ragione”, si è fatto coinvolgere in sterili opposizioni nei confronti di chi la pensa diversamente.
Siamo, poi, stati tutti letteralmente sommersi da informazioni – da una parte e dall’altra –  spesso non verificabili, quando non palesemente false.
Pertanto ritengo che il principale dovere di un operatore dell’informazione sia quello di parlare possibilmente solo per conoscenza diretta.

Che lo stato in cui versa la sanità italiana sia miserevole non ci sono dubbi; basti ricordare che tra 2010 e 2019 sono stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale. Il personale sanitario è diminuito di 42mila unità, mentre, per converso, è aumentata l’incidenza del settore privato.

Non è certo un mistero che la sanità italiana sia stata colta del tutto impreparata dall’arrivo della pandemia e questo – oltre che dalle inchieste giornalistiche indipendenti che hanno recentemente fatto luce su importanti aspetti della questione – era evidente fin dalle prime settimane dell’emergenza sanitaria, nei primi mesi del 2020.

Per meglio visualizzare lo stato reale del sistema sanitario italiano alla vigilia della crisi basterà guardare i dati dell’annuario statistico del SSN relativi al 2019, pubblicati a metà giugno 2021 dal ministero della Salute nel grafico qui a fianco.

Il confronto con il 2010 è impietoso; abbiamo un decennio di definanziamento della sanità, con un decremento, appunto, di ben 37 miliardi di euro decretato dai vari governi in carica in questi dieci anni.

In un decennio sono stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale. Senza contare le 276 strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno – a fronte delle 2.459 private in più – mentre il personale dipendente del servizio sanitario è diminuito di 42.380 unità (5.132 medici e odontoiatri e 7.374 infermieri). In declino anche la ricettività: nel 2019, c’erano 3,5 posti letto ogni mille abitanti rispetto ai 4,1 del 2010. Secondo  l’Eurostat, l’Italia è tra gli ultimi sette Paesi dell’UE per numero di posti letto. 

Una situazione non solo penosa e dolorosa per i malati – come chi ha avuto la sventura di recarsi in un ospedale in questi ultimi due anni può ben testimoniare –  ma anche immorale nei confronti dei sanitari, pomposamente definiti “eroi” all’inizio dell’emergenza, ed oggi lasciati cinicamente al loro destino.
Per questo motivo vorrei oggi dare la parola ad una operatrice sanitaria la cui esperienza può dimostrarsi preziosa per comprendere come stanno veramente le cose oggi sul versante ospedaliero e, nello specifico, nelle RSA.

Per evidenti ragioni di riservatezza la chiameremo Lucia S.

 


 

Buongiorno Lucia, ci puoi raccontare in breve la tua vicenda?

Ho lavorato in RSA, come infermiera, dal 1997.

Durante questa “pandemia” il rapporto relazionale con i residenti è mutato molto e, per quanto ci siano (almeno nella mia realtà) ancora molti operatori che prestano premura a questo aspetto, per me fondamentale, la maggior parte delle attenzioni sono concentrate sul virus.

All’inizio della cosiddetta pandemia, gli operatori lavoravano senza dispositivi di protezione e quando sono arrivate le mascherine chirurgiche è stata data indicazione sulla necessità di disinfettarle e metterle in un sacchetto sigillato per un eventuale riutilizzo. La motivazione che ci è stata data in merito era determinata dalla difficoltà nell’approvvigionamento delle stesse. A fine marzo 2020 questo problema si è risolto, e abbiamo sempre lavorato con la FFP2 anche per la presenza di positivi tra gli ospiti.

È stato effettuato uno screening che prevedeva l’esecuzione dei tampono naso-faringei a tutto il personale, inizialmente ogni 14 giorni, in seguito ogni 7. Tale pratica prevedeva l’adesione “libera” dei singoli attraverso un consenso informato che, se sottoscritto, determinava l’obbligo (revocabile per iscritto) fino a data da definire da parte dell’Azienda Sanitaria (la quale ha interrotto lo screening solo sui soggetti vaccinati circa a fine febbraio 2021). Inutile dire che le pressioni sono state tali che, ad esclusione di alcune eccezioni, praticamente tutto il personale ha sottoscritto. In aggiunta agli screening, si sono praticati tamponi ogni qualvolta vi fosse la presenza di casi positivi accertati di operatori e/o ospiti (indipendentemente dal fatto che ci fosse stato o meno contatto diretto da parte del singolo ma basandosi sulle aree di lavoro).

Quando un ospite veniva, e viene tuttora, identificato come ” a rischio covid “, ossia ogni volta che aveva disturbi correlabili allo stesso o nel caso di ricoveri e/o visite esterne alla struttura veniva sottoposto a isolamento nella stanza da solo. Va precisato che inizialmente sia le visite ospedaliere che i ricoveri erano stati bloccati da parte dell’Azienda Sanitaria.

L’ordine era quello di ridurre l’entrata in stanza al minimo indispensabile e con tutti i presidi di protezione in aggiunta alla mascherina (camice, guanti visiera, cuffia). La notte l’infermiere aveva l’ordine di non entrare se non per emergenze.

Quando sono state riaperte le visite ai familiari, gli stessi venivano sottoposti a screening e misurazione della temperatura. Potevano presentarsi previo appuntamento e vedere il loro caro (un solo parente per visita) separato da un vetro, in presenza di un operatore e per un tempo di circa 20 minuti. Se i familiari decidevano di portare un regalo, lo stesso doveva essere dato all’operatore che l’avrebbe disinfettato prima di consegnarlo al destinatario.

Con l’arrivo dell’estate 2021 e con l’avvenuta somministrazione dei vaccini, le visite potevano essere fatte nel giardino, permettendo in questo modo anche il contatto fisico. I parenti dovevano presentarsi con tampone negativo e potevano salire in struttura solo se vaccinati. Per quei pochi ospiti che non avevano accettato di vaccinarsi, tutto ciò era precluso e le visite continuavano a svolgersi dietro il vetro.

Quasi tutti gli anziani si sono sottoposti al trattamento, (alcuni anche a seguito di pressioni da parte dei familiari che desideravano porre fine a questa distanza forzata). Ci sono stati un paio di decessi che, a quanto pare, sono stati segnalati (emorragie cerebrali intervenute dopo 12 ore circa, uno dei due si era ammalato di covid con sintomatologia importante nella prima ondata ma aveva recuperato completamente).

Inizialmente l’adesione da parte del personale non è stata molto alta. Il fascicolo informativo che ci è stato messo a disposizione chiariva che il vaccino era in fase III di sperimentazione, non conferiva l’immunità e non si conosceva ancora se esso avrebbe impedito la trasmissione del virus verso altri soggetti. Esso era stato studiato nelle forme sintomatiche e pauci-sintomatiche determinando la capacità di ridurre i sintomi. Lo studio non era stato effettuato sulle formi gravi non garantendo perciò la possibilità dello stesso di agire efficacemente su esse riducendo le ospedalizzazioni, i ricoveri in terapia intensiva e la mortalità. Infatti, in accordo con le autorità regolatorie, è stato scelto un esito primario facile da dimostrare in breve tempo, ossia la riduzione dei casi sintomatici e confermati di covid 19, di qualunque gravità (ad esempio solo con febbre e tosse). Importante è segnalare, riportava il suddetto fascicolo, che una riduzione complessiva dei casi di infezione non necessariamente comporta una riduzione dei casi gravi.

Nella lettera inviata ai dipendenti si sono fatte pressioni per far leva sul senso di “altruismo” e ” responsabilità professionale”, ribadito con una certa costanza attraverso messaggi interni; a voce si parla anche di possibili richieste di risarcimento nel caso in cui un operatore non vaccinato si fosse ammalato e avesse infettato qualcuno.


Poi, quando le pressioni sono diventate insostenibili cosa è successo?

Con il Dl 44/2021, che sanciva l’obbligo per il personale sanitario di sottoporsi al vaccino, chi non si è accontentato delle spiegazioni fornite sulla sua utilità e sui possibili effetti collaterali a medio/lungo termine, anche inerenti a patologie già in essere, ha dovuto scegliere se sottoporsi suo malgrado al trattamento (aspettando di verificare i suoi dubbi sulla propria pelle) o se optare per la sospensione. Tengo a precisare che non tutti hanno deciso di farsi sospendere per paura. C’è chi, in questa scelta, si è confrontato con un suo principio morale che non condivideva le modalità di un’imposizione massiva allo studio in atto.

Il personale, infatti, ha potuto appurare (nella seconda ondata) che l’uso di terapie precoci mirate garantiva comunque la guarigioni in un’elevata percentuale di anziani che si erano ammalati e questo ha acuito la consapevolezza che dietro all’aspetto sanitario ci fosse comunque un forte interesse politico, accentuato dalle manovre che tutti hanno potuto sperimentare in questo periodo (mancato investimento nell’assistenza territoriale e delle cure precoci, mancato incremento dei posti letto in ospedale, ridotto utilizzo degli aiuti economici verso una sanità che non sia “ a distanza”, zone colorate – green pass – super green pass, e via dicendo).

Il luogo di lavoro ha iniziato ad essere ulteriormente “pesante”, sia perché la procedura di sospensione era articolata e farraginosa, sia per il clima venutosi a creare con alcuni colleghi vaccinati. Le tempistiche di sospensione non sono state uguali per tutti i dipendenti che hanno vissuto gli ultimi mesi di lavoro aspettando da un momento all’altro la chiamata che decretava il loro stop lavorativo e che hanno visto la sospensione dei loro colleghi anche a distanza di diversi mesi uno dall’altro. Il riconoscimento di chi non si era vaccinato era evidente a tutti in quanto i non vaccinati adoperavano diversi presidi di protezione personale e dovevano rispettare procedure più soft al rientro dalle ferie o da permessi o malattia (anche se certificata come malattia differente dal covid)). I non vaccinati non dovevano sottoporsi al tampone dopo queste assenze.

Pressioni, minacce, licenziamenti; quelli che all’inizio vennero celebrati come “eroi” oggi sono “vuoti a perdere”. Come si sono svolti i fatti dopo la tua sospensione?

Il personale sospeso è stato in parte sostituito con forza lavoro proveniente dall’estero che viene sfruttato dalle cooperative (incrementando così il turn over già elevato). Persone che, spesso, conoscono molto poco la lingua italiana anche per quanto riguarda l’interloquire quotidiano.

Loro godono di una proroga per la quale non sono obbligati ad iscriversi all’ordine nell’immediato (cosa che per gli italiani preclude la possibilità di esercitare).

Per quanto riguarda la struttura in cui operavo io, il personale arrivato ha necessitato, non solo di un lungo affiancamento ad un professionista “esperto”, bensì di una vera e propria formazione (molti non erano in grado di rilevare i parametri vitali e non conoscevano i principi attivi delle terapie con conseguenti errori, anche di una certa rilevanza). E, spesso, si è licenziato dopo l’inserimento perché veniva impiegato per la copertura dei turni, con ritiri riposi e doppi turni, o perché le cooperative a cui si era appoggiato non rispettavano i termini contrattuali.

Il personale rimasto in servizio non è nelle possibilità di usufruire delle ferie, e spesso deve a sua volta coprire turni oltre al proprio. In alcun casi sono stati cambiati, almeno temporaneamente, i contratti par-time, trasformandoli in tempi pieni.

Inutile dire che la qualità dell’assistenza offerta sia ulteriormente diminuita, che il personale e le strutture siano in affanno, che le liste di attesa (già molto lunghe) per quegli anziani che aspettano un posto in RSA, perché necessiterebbero di usufruire di un’assistenza continua, si sono incrementate ulteriormente.

Tutto ciò è molto lontano dalla precedente idea di un’assistenza calorosa e umana di cui un uomo avrebbe diritto nel suo ultimo tratto di strada che lo separa dalla morte.

Io non sto lavorando, perciò quel che accade nella RSA lo sento dai colleghi che sono ancora in servizio.

So per certo che tutti gli ospiti hanno fatto il terzo vaccino e che, nonostante ciò, ci sono stati isolamenti e positivi. A me piange il cuore se solo penso a come abbiamo ridotto la vita di questi anziani.

Purtroppo per molti operatori questa è diventata la nuova normalità e, forse, anche per troppi parenti.

Qual è la situazione dei corsi di formazione oggi?

Molti anni fa, l’ordine ha imposto la cosiddetta formazione obbligatoria (non chiarendo quali sarebbero state le conseguenze nel caso in cui non si fossero maturati i crediti minimi stabiliti). Inizialmente essa avveniva in orario di lavoro a spese dell’ente di cui si era alle dipendenze ed era – formativa -. In seguito il livello dei corsi interni si è abbassato moltissimo. In aggiunta, la rosa dei corsi “interni” si ripeteva pressoché sempre uguale di anno in anno. Anzi, negli ultimi anni le novità riguardavano corsi di formazione inerenti l’ambito tecnico e quelli attinenti all’area tecnologica che hanno sostituito gli approfondimenti relativi all’ambito relazionale (in passato molto gettonati). Con questi corsi, ultimamente, si riuscivano a maturare dai 5 ai 15 crediti annui (l’ordine ne richiede almeno 50 all’anno). I crediti mancanti dovevano essere integrati con corsi extra che il singolo doveva fare fuori orario di lavoro e autonomamente o prenotandoli in presenza ( a pagamento) oppure online. I corsi svolti attraverso provider accreditati dovevano coprire almeno il 40% dei crediti, mentre il restante 60% dei crediti potevano essere maturati attraverso attività di ricerca scientifica, attività di tutoraggio o studio all’estero (ovviamente cosa per pochi). Il suddetto parametro è stato modificato in questi giorni e la formazione attraverso provider accreditati deve coprire almeno l’80% dei crediti.

Ultimamente l’ordine ha inviato una PEC nella quale informa che chi non ha maturato i crediti ( dal 2014 ad oggi, divisi per trienni, 150 a triennio) alla data del 31 dicembre del corrente anno (ora prorogata, guarda caso, al 30 giugno 2022) sarà sottoposto a sanzioni “che potranno variare di grado in base al caso specifico”, c’è chi ha paventato anche la possibilità di una sospensione dovuta a ciò.

Ebbene, a mio avviso, indipendentemente dal fatto che mi riguarda personalmente e con il quale sto facendo i conti per scelta, questo sistema è (seppur sconosciuto ai non direttamente interessati) indicativo di come si intende procedere per smantellare il sistema sanitario, nonostante venga presentato come l’interesse di mantenere il personale aggiornato e preparato. Infatti, per quanto riguarda la mia esperienza, i test che determinano il superamento dei corsi non sono una cartina di tornasole delle competenze acquisite. Inoltre la situazione di carenza del personale infermieristico è presente già da anni e si aggrava sempre più in maniera inversamente proporzionale all’aggravarsi delle condizioni di salute degli utenti che accedono alla struttura.

 

Insomma una situazione di degrado generale dell’assistenza sanitaria, sia a livello organizzativo che morale. Cosa mi puoi dire in merito alle responsabilità civile e di colpa grave del singolo operatore?

Nei mesi scorsi l’ordine ha inviato una PEC nella quale informa che dal 2017 è obbligatoria l’assicurazione per responsabilità civile e colpa grave anche per il professionista dipendente (non sono a conoscenza di eventuali accordi, ma sino ad ora sia a me che ai miei colleghi era stato detto che eravamo già assicurati dall’ente del quale siamo alle dipendenze).

Nella stessa PEC ci informavano che l’ordine ha istituito due gare di appalto europee per poter individuare l’ente che possa rispondere alle necessità infermieristiche (ente verso il quale, sottolineano, non hanno alcun interesse personale). Alla quota di iscrizione (che sino ad ora si aggirava, in base agli anni, sui 75/80 euro annuali) si dovranno perciò aggiungere altri 22+8 (per la tutela legale) euro all’anno.

 

Grazie Lucia S. per la tua importante testimonianza, che getta purtroppo una luce sinistra su come si sta gestendo la sanità pubblica nella più completa e disumana indifferenza per la sofferenza e per la stessa salute fisica e psichica di operatori e pazienti.

Piero Cammerinesi

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