Raffiche di Bugie sul Caso Moro. Stato e BR spararono su Aldo Moro

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Il libro del generale Laporta svela le fasi del complotto
“Stato e Br spararono in via Fani. Una storia da riscrivere”

Un ordigno ad alto potenziale occultato in una Mini Cooper verde col tetto nero, parcheggiata in via Fani, poco distante dall’incrocio con via Stresa. Un convoglio di due auto – una Fiat 130 con a bordo due militari dell’Arma dei Carabinieri, il maresciallo Oreste Leonardi e l’autista appuntato Domenico Ricci, e una Alfa Romeo con altri tre agenti di scorta, i poliziotti Francesco Zizzi, Giulio Riversa e Raffaele Iozzino – bloccati in via Fani in prossimità dell’incrocio con via Stresa da una Fiat 128 familiare bianca con targa diplomatica venezuelana rubata.

Nessun tamponamento tra la Fiat 130 e la 128 con targa diplomatica, come raccontato fino a oggi. Un’azione fulminea e militarmente perfetta compiuta da killer professionisti, addestrati e estranei alle BR di Mario Moretti Valerio Morucci, spezza la vita dei due carabinieri, non lasciando loro neanche il tempo di estrarre le armi e reagire. «I due furono colti di sorpresa e fulminati». Un’azione chirurgica, compiuta a distanza ravvicinata dal lato destro, rispetto al senso di marcia del convoglio, che ha neutralizzato in pochi secondi la scorta armata dell’ex ministro degli Esteri ed ex presidente del Consiglio. Un primo colpo sparato frontalmente sul parabrezza della Fiat 130 di Aldo Moro ha dato inizio alla carneficina.

I brigatisti non furono né i primi né i soli a sparare.

È la mattina di giovedì 16 marzo 1978. È la strage di via Fani. È il luogo dello sterminio della scorta di Aldo Moro. È l’operazione Fritz, come sembra l’abbiano denominata le Brigate Rosse e della quale rivendicarono l’ideazione, l’esecuzione e la totale responsabilità. Alla fine dell’agguato, nessuno sopravvisse. Tutti morti: i due carabinieri e i tre poliziotti. Quattro di loro, Leonardi, Ricci, Rivera e Zizzi, non fecero neanche in tempo a uscire dall’abitacolo dell’autovettura. Il quinto, Iozzino, 24 anni, venne falciato appena lasciato l’abitacolo dell’Alfa Romeo, in un disperato tentativo di difesa e risposta al fuoco (esplodendo pare due colpi). Rimase supino sul selciato, agonizzante.

E Aldo Moro?

Questo è un piccolo assaggio di un libro eretico, controcorrente, corrosivo e destabilizzante sul caso Moro.

Il titolo è “Raffiche di bugie a via Fani” con un sottotitolo che è tutto un programma “Stato e BR spararono su Aldo Moro” ed è scritto dal generale Piero Laporta. Edito da lui stesso e diffuso attraverso Amazon.

293 pagine in cui l’autore demolisce, senza alcuna pietà, alcuni luoghi comuni, alcuni stereotipi investigativi che sono sopravvissuti a decine di indagini, processi e inchieste parlamentari, in questi 45 anni. Laporta si concentra, in particolare, su quanto accadde in via Fani quella mattina – tra le ore 9 e le 10 – di quel 16 marzo 1978 per approdare, attraverso una serie di drammatici passaggi concentrici, all’idea (neanche tanto azzardata) che la strage della scorta dello statista democristiano fu l’avvio di un colpo di Stato.

«La vicenda Moro, al di là dei suoi intriganti contorni polizieschi e complottistici, pone le basi di un salto di qualità nella destrutturazione dell’Italia: l’anno dopo, il G7 di Tokyo abbatterà la seconda colonna degli equilibri emersi a Bretton Woods nel 1944 – che avevano assicurato 35 anni di sviluppo economico soddisfacente – rompendo, cioè, il criterio di solidarietà tra Paesi (la prima colonna abbattuta fu quella degli accordi monetari abbandonati nell’estate del 1971)».

 

Conosco il generale Laporta da anni.

Abbiamo condiviso anche una comune esperienza e cioè quella di consulenti tecnici dell’allora Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin, tra il 2003 e il 2006. Come lui stesso ci tiene a spiegare,

«dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerato), mi sono immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d’altronde sarebbe stato naturale, considerato il lavoro svolto a quel tempo: Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa».

A partire da quel momento, l’autore ha iniziato a collaborare con giornali, settimanali e periodici (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, Italia Oggi, Il Mondo, La Verità e così via). Ha quindi lanciato sul web il suo blog Oltrelanotizia (pierolaporta.it).

Il generale Laporta vuole subito sgombrare il campo da facili equivoci:

«Non sono mai stato iscritto ad alcun partito politico, loggia massonica né associazione. Ho giurato fedeltà alla Repubblica italiana il 19 marzo 1971 nell’Accademia Militare di Modena. Non ho mai fatto parte dei servizi segreti, né italiani né esteri. Essere dei servizi segreti italiani – sottolinea – non è disonorevole, tutt’ altro. Non di meno tale precisazione, soprattutto per i servizi esteri, dopo la tortura e l’uccisione del presidente Aldo Moro è doverosa e opportuna».

E da questa precisazione dell’autore, emerge la prima, straordinaria notizia, che costituisce uno dei perni del suo libro- inchiesta: Aldo Moro, 62 anni all’epoca dei fatti, fu malmenato dai propri aguzzini tanto da riportare la frattura di almeno quattro costole dell’emitorace sinistro: la quarta, la quinta, la sesta e l’ottava. «La quinta e l’ottava» erano in via di guarigione quando il cadavere dello statista democristiano venne esaminato dai medici legali nominati dalla Procura di Roma.

A pagina 58 Laporta cita un brano della perizia medico-legale:

«Si osservano inoltre, a carico della IV, VI e VIII costola di sinistra, immagini lineari di frattura con segni perifocali d’un netto addensamento riparativo, soprattutto a carico della Ve VIII costa, ove è ben apprezzabile l’apposizione del callo osseo in avanzata fase di calcificazione».

A quando risalivano, dunque, queste fratture sul costato del politico salentino?

«Detti ultimi aspetti – riportava la perizia medico-legale – orientano per postumo relativamente recenti di fratture la cui epoca di produzione può essere fatta risalire fra i trenta e i sessanta giorni»,

prima della autopsia. E se il cadavere di Moro venne fatto ritrovare dai brigatisti nel bagagliaio della Renault rossa in via Caetani il 9 maggio 1978, vuol dire che le fratture delle costole intervennero nell’intervallo temporale in cui il presidente della DC era in mano alle BR.

 

 

Ma questa informazione, di per sé particolarmente importante e grave, venne immediatamente censurata e insabbiata. Fin dalla data della sua prima pubblicazione su un periodico nazionale.

Laporta, per questo, ha recuperato la testimonianza di Roberto Chiodi, decano della cronaca giudiziaria italiana, che all’epoca lavorava per il settimanale “L’Europeo”. Chiodi, testimone privilegiato diretto in qualità di cronista fin dalle primissime fasi delle indagini, frequentando per motivi professionali tutte le mattine gli uffici giudiziari della Capitale a piazzale Clodio, un anno dopo ebbe modo – primo fra tutti i giornalisti italiani – di mettere le mani sulla perizia medico-legale e sulle foto del cadavere di Aldo Moro:

«Ero inviato speciale per “L’Europeo” e rimasi sbalordito (e lo sono tuttora) di come un particolare clamoroso come le costole fratturate venisse puntualmente ignorato dalla magistratura, dagli imputati, dalla stampa, dalle commissioni, dalle sentenze».

Il 5 aprile del 1979, a meno di un anno dal ritrovamento del corpo di Moro nella Renault rossa in via Caetani, L’Europeo uscì nelle edicole con in copertina una foto del cadavere del presidente della DC steso sul tavolo dell’obitorio e il titolo Delitto Moro. Lo hanno ucciso così. Tutte le foto inedite”. Chiodi, che ho sentito al telefono per avere riscontro di quanto riportato nel libro di Laporta, ha confermato tutto:

«Attraverso il legale difensore dei brigatisti, Edoardo Di Giovanni, ebbi la notizia che era stata depositata in Procura la perizia autoptica. Lui, Di Giovanni, mi disse però che la Cancelleria non avrebbe potuto fargli avere in tempi brevi le foto dell’autopsia di Moro. Mi chiese se potevo mettergli a disposizione un fotografo e così ci accordammo. Chiesi in cambio di poter leggere la perizia dei medici legali. Il nostro fotografo partì da Milano alla volta di Roma e il giorno dopo riprodusse le foto dell’autopsia di Moro e io potei esaminare la perizia. Leggendo l’atto, fui subito colpito dal passaggio relativo alle fratture delle costole, provocate durante i 55 giorni della prigionia di Moro da parte delle BR».

Una volta arrivate in edicola, le copie de “L’Europeo” del 5 aprile 1979 con la foto del cadavere di Moro nella morgue in copertina e con all’interno il servizio di Chiodi sugli inattesi e sconcertanti esiti dell’esame autoptico, vennero rapidamente poste sotto sequestro dall’autorità giudiziaria, su richiesta dell’avvocato socialista Giuliano Vassalli, legale di parte civile della famiglia Moro. Un provvedimento di particolare gravità, che a memoria non sembrava avere precedenti.

«Smanettando su Internet – racconta Chiodi, nella sua testimonianza riportata nel libro di Laporta – non sono riuscito a trovare una riga sulla storia del sequestro in edicola dell’“Europeo” con le foto dell’autopsia di Moro. Vado quindi a memoria: fu l’avvocato Giuliano Vassalli a sollecitare a Tribunale ex art. 700 (provvedimenti d’urgenza) il sequestro del settimanale appena uscito. Agì per conto della famiglia, evidentemente “turbata” dalle immagini. I giudici le ritennero seduta stante “oscene o raccapriccianti… atte a turbare l’ordine pubblico” (vado a memoria) e disposero l’immediato sequestro in tutte le edicole. Tutti condannarono “L’Europeo” (ovviamente prima che ci fosse una sentenza e senza sentire gli imputati) e furono accuse di fuoco. Sulla vicenda calò una sorta di infamia. Nessuno riuscì a guardare le foto, a leggere e capirne i contenuti: cosa stavano a significare quegli undici proiettili sparati a bruciapelo sul lato sinistro del corpo, là dove le costole erano state fratturate».

Così come altri grandi misteri della storia italiana del dopoguerra, anche il caso Moro – a distanza di oltre quattro decenni – nasconde intatti tutti i suoi lati oscuri, le sue contraddizioni, le sue omissioni. E, come tante altre vicende di sangue, tanti altri casi di violenza politica, l’accertamento della verità è andato avanti a salti, passando da un teorema all’altro, trascurando – nella maggior parte dei casi – i primi, fondamentali accertamenti investigativi e le stesse perizie medico legali.

«Di sicuro, i contenuti di quel numero – conclude Chiodi – la rivelazione delle singolari fratture e della direzione dei colpi venne, se non decisamente nascosta, quanto meno subito accantonata. Oggi sono convinto che la damnatio memoriae non riguardava Moro e il suo cadavere martoriato. A essere cancellata più a lungo possibile doveva essere la notizia delle costole fratturate e non le immagini, che non turbarono davvero un’opinione pubblica abituata in quei giorni a ben altro. Quando se ne parlò, fu solo per stigmatizzare le scelte editoriali (foto “raccapriccianti”) e non per capire il perché di quel massacro inflitto a un prigioniero morente. E poi: foto “raccapriccianti”? E piazzale Loreto? E il volto sfigurato di Pasolini, copertina de “L’Espresso”, pochi mesi prima? E quello grondante di sangue di Pecorelli, copertina di “Panorama”. In edicola la stessa settimana in cui uscì “L’Europeo” con Moro?».

Senza spoilerare la trama di Raffiche di bugie in via Fani, va però detto che questo libro lancia una sfida alla magistratura, alla politica e al giornalismo mainstream.

Per Laporta, la storia del caso Moro va riscritta daccapo. Partendo dall’inizio, dagli attimi iniziali, dai primissimi accertamenti di polizia giudiziaria. Nel tempo, le incrostazioni, le false verità di comodo dei brigatisti, i depistaggi, la disinformazione hanno sepolto la vicenda sotto una coltre di scorie impenetrabile. È l’intera meccanica dell’agguato di via Mario Fani che deve essere ricostruita senza omissioni, senza inganni, facendo piazza pulita dai troppi luoghi comune e verità compiacenti. Questo libro offre più interrogativi che risposte. Troppe piste che non hanno portato mai a nulla. Troppe ricostruzioni fallaci che non hanno mai spiegato, fino in fondo e in modo chiaro e logico, come andarono realmente i fatti quel 16 maggio di 45 anni fa in via Fani.

 

L’agguato di via Fani

Decenni di indagini fatte male, di propaganda, di intossicazioni mediatiche e di falsi scoop hanno trasformato il caso Moro in un cold case senza apparente soluzione. L’opinione pubblica, in larga parte, si è lasciata manipolare e condizionare da decenni di versioni accomodanti, dalle ricostruzioni fasulle, dalle tante bufale diffuse come verità assoluta per coprire una qualche oscura ragion di Stato.

«Il messaggio sviante – sottolinea Laporta – va a un uditorio che non ragiona, ma che memorizza le falsità ripetute».

Un ultimo significativo aspetto che a mio parere meriterebbe un serio e doveroso approfondimento riguarda ciò che ho anticipato all’inizio e cioè la presenza in via Fani, pochi metri dall’incrocio con via Stresa, di un’autovettura imbottita di esplosivo ad alto potenziale. Solo questa informazione, se confermata, metterebbe in crisi l’intera ricostruzione dei fatti così come ce l’hanno ammannita i brigatisti. Nessuno di loro, mai, ha fatto cenno a questa circostanza. Eppure, l’esistenza a pochi metri dall’incrocio tra via Fani e via Stresa, laddove le BR aspettavano il transito del convoglio della scorta di Moro, di una macchina-bomba ci pone di fronte a un fatto che apre un ventaglio di ipotesi, una più inquietante dell’altra. Anche questa notizia fu raccolta da Roberto Chiodi, nella tarda mattinata del 16 marzo 1978, nell’ufficio dell’allora procuratore della Repubblica Giovanni De Matteo.

Anche qui ho raccolto le parole del collega-testimone, per avvalorare quanto scritto da Laporta:

«Quella mattina, verso le 9:30, dopo che ebbi conferma dai colleghi dell’Ansa dell’agguato di via Fani, decisi di restare al Palazzo di Giustizia a piazzale Clodio, per seguire i primi sviluppi delle indagini. Restammo con alcuni colleghi appostati fuori della porta del suo ufficio in Procura. De Matteo arrivò verso le 11 e 30. Era molto turbato. Una volta nella sua stanza, rivolgendosi a me esclamò “la coppola”. Sul momento non capii cosa volesse. Poi ha ripetuto, “la coppola”, facendomi segno di togliermi il cappello. In quel momento, di tante cose a cui pensare, De Matteo si era fissato sulla mia coppola, segno, questo, che era veramente sconvolto per quanto aveva visto a via Fani durante il sopralluogo. La prima cosa che il procuratore di Roma ci disse, a noi cronisti presenti nel suo ufficio, fu dell’auto piena di esplosivo ad alto potenziale parcheggiata sul lato sinistro di via Fani. Ebbe l’informazione da un ufficiale dei Carabinieri».

Ma poi la storia della bomba sparisce dalle ricostruzioni ufficiali: «De Matteo ci disse che la bomba poteva fare una carneficina».

Scrive Laporta:

«I giornalisti pensavano ad altro, Chiodi lo conferma: “Ma con tutto quello che era successo, le domande e gli argomenti furono altri. Credo che il giorno dopo la notizia della bomba ebbe nelle cronache una rilevanza minima o nulla. Dovendo scrivere per un settimanale che sarebbe uscito qualche giorno dopo, decisi di sfruttare l’occasione dello strano “silenzio” su questo particolare e gli detti particolare importanza nel mio articolo. Il giorno stesso della strage tutti i soggetti coinvolti nelle indagini (Polizia, Carabinieri, Servizi) avevano non dico “smentito” la notizia, ma l’avevano in un certo senso “declassificata”: ne parlavano con fastidio, ammettevano appena un eccesso di zelo, forse qualche filo sospetto, forse alcune cartucce. Meglio non occuparsene. C’era ben altro di cui scrivere”. Perché la notizia della bomba deve essere tenuta segreta?».

Si domanda l’autore del libro.

Chiodi andò a riparlarne con il procuratore De Matteo, qualche giorno dopo:

«Scrollò le spalle, si limitò a dire che erano intervenuti gli artificieri e che un capitano dei Carabinieri gli aveva detto che “c’era una bomba ad alto potenziale”. Il mio ragionamento fu semplice: se era stato solo un sospetto, come poteva quel capitano aver specificato che l’ordigno era ad alto potenziale?».

Per Laporta l’obiettivo di quell’ordigno era «mettere al sicuro i “quattro [falsi] piloti dell’Alitalia”.

Osserva Chiodi:

“Insomma, se a via Mario Fani era stata trovata davvero una bomba ad alto potenziale, beh, la notizia andava disinnescata in partenza. Come avvenne e come a tutti i cronisti fu subito consigliato di fare. Ma io avevo sentito di persona il procuratore capo, la persona incaricata di coordinare e dirigere tutte le indagini. E alla quale un capitano dei Carabinieri non può raccontare in via Mario Fani una colossale fandonia, specificando addirittura (quasi l’avesse vista la bomba e saputa la pericolosità) che era “ad alto potenziale”. Decisi di scriverne, quasi volessi lasciare quel particolare a futura memoria. E oggi mi sembra ancora strano che non se ne sia mai più parlato” […]

Che cosa è accaduto?», domanda ancora Laporta.

 

 

La notizia della presenza dell’auto-bomba in via Fani non solo venne battuta anche dall’agenzia AGI, alle ore 12.09 del 16 marzo 1978 («è stata trovata anche una macchina con un ordigno esplosivo. Si tratta di una Mini color verde. L’ordigno è stato rimosso dagli artificieri»), ma venne – neanche tre mesi dopo – acquisita e riportata dalla STASI in un rapporto tecnico di cinque pagine, datato 8 giugno 1978. Nell’ultima pagina gli esperti antiterrorismo della polizia segreta della DDR avevano disegnato e messo a confronto due piantine: una relativa all’azione terroristica del 5 settembre 1977 in Vincenz-Statz Strasse a Colonia, durante la quale la RAF, dopo aver annientato i quattro uomini della scorta, rapì il presidente degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer. L’altra, a sinistra, relativa all’agguato di via Fani. In questa ricostruzione elaborata dalla STASI compare un’autovettura, indicata con il numero 5 a cui corrisponde la seguente didascalia: «Auto parcheggiata dagli autori [dell’assalto] con esplosivo».

Ora, per concludere, la domanda è questa: se in Italia – come riferisce l’audace libro del generale Laporta, sulla base della testimonianza del collega Chiodi – la notizia dell’autobomba fu subito insabbiata e tolta di mezzo (tanto che nessuno ne ha mai più parlato o scritto), come ha fatto la STASI ad acquisire questa informazione, averla valutata e, infine, averla utilizzata nel rapporto tecnico dell’8 giugno 1978?

Un altro interrogativo al quale si dovrà, prima o poi, dare una risposta.

Gian Paolo Pelizzaro

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