Sicuro, Smart, Speciale

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di Sinéad Murphy

Sicuro, Smart, Speciale: i tre pilastri della nostra neolingua. “Sicuro” mette in pericolo la vita; “Smart” degrada le facoltà; “Speciale” rende normali.

“Sicuro” sembrerebbe significare evitare il danno. Ora significa evitare le possibilità.

Essere al sicuro significa essere allontanati dal mondo, in modo che rimanga solo un ventaglio di opzioni prestabilite, troppo ristretto per realizzare il potenziale più modesto e quindi inducente il malessere spirituale che deriva da una vita poco coinvolgente e che è il fondamento di tante malattie reali e immaginarie di oggi.

Inoltre, poiché il lungo sodalizio tra “salute e sicurezza” è diventato sempre più stretto, la salute è ora il campo dominante in cui ci manteniamo sicuri.

Il termine “sicuro” implica quindi non solo una negoziazione eccessiva del mondo in cui ci muoviamo, ma anche una modalità di relazione con le presunte minacce biochimiche che ha poco a che fare con la nostra attenzione, affidandosi quasi completamente all’intervento di competenze tecniche designate.

L’effetto di questa confusione tra sicurezza e salute, e della conseguente sottomissione di massa alle soluzioni tecniche per le minacce alla salute identificate, è che il nostro benessere viene alimentato a livello di gruppi e non di individui. Quando uno di noi rimane al sicuro, acconsentiamo sempre di più al sacrificio del nostro benessere individuale sull’altare di uno o più benefici universali modellati al computer, a cui possiamo al massimo solo partecipare, ma che sono fondamentalmente indifferenti al nostro benessere.

Una pubblicità radiofonica di un programma per smettere di fumare presenta una donna che afferma di aver sofferto di cancro alla laringe a causa del suo vizio. “Il fumo ha cercato di prendersi la mia vita e la mia salute”, dice. Un curioso copione preparato per lei, come se fosse possibile togliere la vita a qualcuno senza togliergli la salute, come se le due cose fossero indipendenti l’una dall’altra.

Sono indipendenti l’uno dall’altro secondo gli algoritmi che determinano cosa significa per noi essere al sicuro? La prevenzione dei rischi per la salute è separata non solo dalla qualità della vita individuale, ma anche dalla vita stessa?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che la salute è un diritto umano. La fusione di salute e sicurezza ci prepara ad accettarlo; ci aspettiamo ora di andare in giro per il mondo e non veder crescere tumori o soffrire di ansia, così come ci aspettiamo di andare in giro per il mondo e non essere colpiti da una scala che cade.

La salute – definita in base a misurazioni di oggetti astratti costituiti nei laboratori di ricerca medica e interpretati da esperti e dai loro strumenti – è diventata sacrosanta.

Ne consegue, però, che l’assenza di salute è diventata un oltraggio. Un’infrazione. Troppo discutibile per essere sopportata. Finché si combatte – cioè ci si sottomette a soluzioni tecniche che non danno priorità alla propria resistenza individuale, ma sono giustificate da analisi macro-scientifiche di oggetti micro-scientifici – si è un nuovo tipo di eroe. Ma una volta stabilito che non c’è più nessuna battaglia da combattere, ci si ritrova fuori dalla realtà.

Non potendo stare al sicuro, non si esiste (o non si dovrebbe esistere). Questo spiega la proliferazione di percorsi di fine vita ora sostenuti dall’assistenza sanitaria statale, almeno nel Regno Unito; l’anoressia nervosa è una delle malattie recentemente considerate meritevoli di un approccio palliativo.

Il fatto che la salute sia ora un diritto umano e tuttavia separato dalla continuazione dell’esistenza di una persona – che la mia salute sia indipendente dalla mia sopravvivenza – pone la salute come una sorta di salvezza che deve essere perseguita e conquistata su un piano di virtù superiore alla mera persistenza umana.

Questa è la sinistra verità degli slogan “In This Together” [Sulla stessa barca, NdT] che negli ultimi anni hanno tappezzato le nostre istituzioni sanitarie: la ridefinizione della salute come sicurezza, in modo che la nostra salute sia indifferente alla mia vita.

“Smart” [Intelligente, NdT] è il portale attraverso il quale le opportunità pubblicizzate come inerenti allo sviluppo dell’intelligenza artificiale vengono installate come un evidente allargamento degli orizzonti dell’esistenza umana.

“Smart” è in realtà un assalto all’intelligenza umana, basato sulla degradazione delle facoltà umane da parte di un sistema educativo attivamente erosivo, in modo che cessiamo di essere capaci di svolgere le nostre funzioni superiori e veniamo riformulati come esseri puramente calcolatori. Consegnati a operare in ambiti così ristretti che i nostri poteri sono superati dai programmi per computer.

Immaginare, ricordare, speculare, afferrare, giudicare, sentire – capire veramente – non sono minacciati direttamente dall’intelligenza artificiale, che non potrà mai avvicinarsi a questi risultati essenzialmente corporei. Sono cancellati indirettamente dal fallimento sistematico nel coltivare questi risultati, che rappresenta il successo delle nostre istituzioni educative (e non solo) e che ci ha preparato a vivere le limitate capacità di calcolo robotico come un progresso rispetto alla semplice attitudine umana.

Il Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito ci offre i suoi “care responders” [soccorritori, NdT],  che potete chiamare gratuitamente e che interagiranno con voi in modo premuroso, chiedendovi se siete riusciti a fare la vostra passeggiata oggi o se vostro figlio si è ricordato di ritirare la vostra ricetta – è bello avere qualcuno con cui chiacchierare. Ma una società in cui questa interazione artificiale è possibile, e possibile sotto l’egida dell’assistenza, è una società in cui l’imminente passaggio all’assistenza intelligente è già preparato, una società in cui difficilmente ci accorgeremo quando il risponditore è un robot.

Smart, l’intelligenza è la degradazione del pensiero e del sentimento umano, che ha come premessa la sua scomparsa e che affretta ulteriormente la sua fine…

… e nel frattempo ci cooptano nel recinto più grande della storia dell’umanità, estraendo ogni nano quantità di dati che è possibile ottenere, anche dalle fessure del nostro corpo, anche dai recessi della nostra mente, rendendoci dipendenti da sistemi digitali per i quali siamo costantemente inconsapevolmente al lavoro.

Se l’era industriale ci rendeva allo stesso tempo docili e utili, obbedienti e produttivi – più docili, più utili; più utili, più docili – la smart society ci rende allo stesso tempo personalmente passivi e digitalmente attivi, stupidi e intelligenti – più stupidi, più intelligenti; più intelligenti, più stupidi.

Saliamo sulla nostra bilancia pesapersone intelligente e fissiamo con aria assente l’ammasso di informazioni sul suo display, ci sottomettiamo all’orgoglio infantile o alla delusione espressa dal suo personaggio robotico e accettiamo la verità implicita nella sua rappresentazione grafica delle fluttuazioni del nostro grasso viscerale, e dimenticare del tutto che è possibile vedere e sentire la massa del nostro corpo e mangiare di meno e muoversi di più, e non accorgersi che i punti di dati generati dalla nostra insensata supplica alle misurazioni dei nostri dispositivi, significativi solo nella loro aggregazione di massa e quindi essenzialmente privi di senso per ognuno di noi, sono un altro mattone nel muro digitale che ci viene costruito intorno.

Più ci applichiamo a questi dispositivi, più siamo fuori allenamento nel consultare le nostre facoltà di ragione, giudizio e sentimento; più siamo fuori allenamento, più ci applichiamo a questi dispositivi.

La terribile simbiosi tra intelligenza e stupidità.

‘Speciale’ lavora per appiattire la singolarità umana innestando un’isteria di categorie e strategie normalizzanti su una narrazione dell’unicità individuale. ‘Speciale’ ottiene questo risultato neutralizzando gli orizzonti culturali all’interno dei quali le persone si stabiliscono nel mondo in modi caratteristici, consegnando le persone a un insieme di opzioni che non sono native di alcuna cultura, ma sono transculturali, generiche, soggette a sospensione o alterazione arbitraria e accessibili solo attraverso portali approvati.

Come fa ‘speciale’ a raggiungere questo obiettivo? Grazie al suo partner silenzioso. Essere speciali significa avere bisogni speciali. Lo “speciale” ci conquista con la sua apparente difesa dei più deboli tra noi, di coloro che compatiamo e che desideriamo aiutare; presentando queste anime vulnerabili come se avessero dei bisogni aggiuntivi, lo “speciale” produce in modo occulto un consenso tacito sul fatto che tutti hanno dei bisogni.

Ma questa nozione, che tutti hanno bisogni, una nozione che è ovunque incontrastata, rimescola profondamente le coordinate della vita umana in modo che siamo determinati dalla scarsità piuttosto che modellati da qualsiasi pienezza costituisca la nostra cultura. In quanto creature del bisogno, siamo strappati alla pienezza degli orizzonti umani di possibilità e siamo ancorati a un’accozzaglia di benefici basilari e universali, che hanno la meglio e quindi disarmano la forza dei modi di vita.

Le persone nelle culture viventi non hanno bisogni: i limiti di ciò che è possibile sono definiti da ciò che è possibile, quindi è impossibile, per definizione, avere bisogni. Se il raccolto fallisce, le persone possono morire, ma muoiono per il crollo del loro modo di vivere e non per i bisogni non soddisfatti che definiscono l’esistenza una volta che i modi di vivere sono stati smantellati.

Il fatto che tra di noi ci siano persone, sempre più numerose, con bisogni speciali è il meccanismo con cui la vita umana viene ridisegnata come vissuta a un livello di benefici identificati, soggetti a infinite modifiche da parte di organizzazioni altamente centralizzate e delle loro strategie aziendali e campagne pubblicitarie; i sostegni extra a quel livello che si ritiene meritino coloro che hanno bisogni speciali oscurano l’oltraggio di una vita vissuta in competizione per beni scarsi e mutevoli piuttosto che definita dalle possibilità significative che danno forma agli esseri umani in contesti umani.

Inevitabilmente, poiché i nostri cosiddetti bisogni sono definiti in modo sempre più esplicito al servizio di interessi lontani di organizzazioni d’élite che hanno una visione e una portata sovraculturali, sempre più persone si sentono alienate dai propri bisogni: di interazione sociale sempre più distante, di salute sempre più astratta, di istruzione modellata da un curriculum artificiale, di cibo senza nutrimento e di sonno interrotto da interruzioni virtuali.

Da qui l’attuale accumulo di bisogni speciali, mentre aumenta la richiesta di sempre più supporti per accedere a bisogni sempre più vuoti e ostili alla felicità umana.

Disperatamente insoddisfatti della nostra vita, ma ignari della causa della nostra insoddisfazione, ci affidiamo alle ultime etichette delle nostre istituzioni e a strategie sempre più proliferanti volte alla nostra inclusione. E nel frattempo la possibilità di affermarci, di formare il nostro carattere e la nostra cultura, si ritira di fronte alla marcia della normalità globale.

Il meccanismo di questi tre pilastri della neolingua è sempre lo stesso: cancellare la nostra esperienza dei limiti.

Questo è il nocciolo della verità che si trova all’opposto di tutti i discorsi su come possiamo fare tutto ciò che scegliamo di fare, ed essere tutto ciò che scegliamo di essere, e pensare ciò che ci piace e sentire ciò che sentiamo – in tutto il vaneggiare che non ci sono limiti.

Ci sono limiti, certo che ci sono; infatti, i limiti di ciò che possiamo fare, essere, pensare e sentire stanno proliferando e pietrificando a un ritmo allarmante. Il nocciolo della verità non è che non ci sono limiti, ma che ci sentiamo come se non ci fossero. L’esperienza dei nostri limiti si allontana.

Mentre la crescente virtù di stare al sicuro spazza via il mondo da ogni sua sfida, traducendo tutto ciò che avevamo imparato a fatica attraverso prove ed errori in lezioni astratte composte da parole e immagini infantili; e mentre i dispositivi intelligenti che arredano il nostro mondo levigato si moltiplicano intorno a noi e dentro di noi, trasformando i difficili giudizi su cosa fare e pensare in una questione solo di conteggio – quanti passi, quanti punti, quante calorie, quanti like; e mentre il nostro disimpegno, la nostra disattenzione, la nostra ansia e la nostra depressione vengono rivalutate come una sorta di specialità, che ci porta dolcemente su un campo di gioco sempre più livellato – il campo di sterminio dell’invenzione e dell’ambizione – sul quale non ci sono opinioni nel caso si scatenino e non ci sono ostacoli nel caso si inciampino: ogni giorno diventiamo più disabituati all’esperienza dei nostri limiti.

Eppure è l’esperienza dei nostri limiti che dà forma alla nostra vita, rivelando ciò che è possibile fare ed essere, ciò per cui siamo. In realtà, la vita è vissuta solo come esperienza dei nostri limiti, essendo una danza di ammissione e negazione delle sfide che incontriamo, di sottomissione o di superamento o di una combinazione di entrambi. Solo da questo la nostra vita trae uno scopo. Solo da questo la nostra vita trae significato.

Naturalmente, anche nel nostro mondo di Safe, Smart e Special ci sono dei limiti, molti di più di quelli che c’erano o che dovrebbero esserci. Non possiamo accedere. Soffriamo dolori. Siamo esclusi. Ma questi limiti sono talmente estranei, talmente al di là delle nostre capacità di negoziazione o di apprendimento, che sono quasi del tutto privi di significato e non ci forniscono quasi mai un’esperienza.

È un’anomalia del sistema. Un’anomalia. Un fallimento dell’istituzione, sepolto nelle profondità della sua burocrazia e che genera solo un’altra liscia apologia aziendale che non viene da nessuno e non va da nessuna parte e deve essere accettata implicitamente.

Quando tutto è sicuro, intelligente e speciale, i limiti della nostra vita non ci offrono alcun acquisto e si affiancano spudoratamente alla retorica onnipresente delle infinite possibilità, dell’attenzione personale, del trattamento su misura, della scelta infinita.

I limiti si presentano come semplice sfortuna, di fronte alla quale possiamo solo rimanere senza parole e proni: questa volta hai perso; gioca di nuovo e potresti vincere.

Il gioco sostituisce il coinvolgimento nel nostro mondo di Safe, Smart e Special; il caso sostituisce lo scopo.

In ogni modo, vincere e perdere si mascherano da significato: a scuola, si assegnano punti per la buona condotta e si mettono in palio prodotti alimentari della mensa, mentre le ultime vestigia di autorità morale si dissolvono nelle nostre aule; al supermercato, la fedeltà e le scelte salutari sono premiate con riduzioni di prezzo e prodotti gratuiti, mentre la prospettiva di un vero nutrimento abbandona l’edificio.

Come criceti su una ruota senza speranza, continuiamo ad andare avanti nell’inerte aspettativa che tu possa essere il prossimo, o che possa essere tu.

Incapaci di sperare o di sognare, al di fuori della grossolana simulazione di sperare e sognare in base a qualsiasi premio, pieno di debiti, su cui siamo spinti a puntare, gli orizzonti delle nostre vite si restringono alle dimensioni di una piccola gabbia da uno, in cui siamo distratti dalla nostra crescente noia, da qualche affannosa soluzione aziendale al più recente pericolo mortale, o dall’ultimo dispositivo tecnico per misurare le nostre vite, o da un’etichetta quasi scientifica per lenire quella fastidiosa sensazione che tutto non sia proprio come dovrebbe essere.

Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare

Fonte


Sinéad Murphy è autrice di Effective History (2010), The Art Kettle (2012) e Zombie University (2017) e coeditrice di Pandemic Response and the Cost of Lockdowns (2022).

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