di Piero Cammerinesi

C’era una volta Libertà, e Libertà si aggirava tra gli uomini e tutti se ne rallegravano. Tutti la invocavano, la esaltavano e senza di lei nulla sembrava aver valore, sapore, colore.
Lei era la dea più amata e bastava il suo nome a dare senso alla vita degli uomini.
Libertà, con la sua fiaccola, squarciava le tenebre del conformismo e le tenebre non riuscivano del tutto ad oscurarla.
Le Nazioni se ne riempivano la bocca e tutti cantavano le “magnifiche sorti e progressive”.

Ma poi il vento cambiò ed anche lei, la dea munita di corona e fiaccola, Libertà, non era più così benvoluta e così venne ringraziata per i suoi servigi e accompagnata gentilmente all’uscita.
Al momento ci si doveva occupare di cose ben più importanti: la paura di virus e di guerre, l’insicurezza economica, e la cieca ubbidienza ai capi.

La prima tra le qualità di Libertà a sparire dalla vista fu quella delle cure sanitarie, del mostrare il proprio volto all’aperto e di uscire di casa senza lasciapassare.

Poi fu la volta di quella di espressione.

Se prima tutti – con Voltaire – avrebbero dato la vita perché altri avessero il diritto di affermare qualsiasi cosa, ed erano gelosissimi della propria riservatezza e di lei, Libertà, da un giorno all’altro iniziarono a pensare che, in fondo, essere spiati e impediti di esprimere le proprie opinioni – in cambio di veder garantita la propria sicurezza, beninteso – non fosse poi così intollerabile.

Anzi, incominciarono anche a prenderci gusto.

”Andrà tutto bene” cantavano.

L’esibizionismo/voyerismo dei social in fondo non faceva sentire più soli anche se reclusi nelle proprie abitazioni e questo era assai gratificante.

I capi – quelli che per definizione fanno tutto per il bene dei sudditi – spiavano tutti, si spiavano anche tra alleati, ma era – naturalmente – per la sicurezza di tutti.

Ben presto s’iniziò a dire che certi argomenti non potevano essere trattati. Per la sicurezza nazionale – dunque, manco a dirlo, per il bene di tutti.

Quei social che avevano consentito a tutti di sentirsi in compagnia – di spiare e farsi spiare con entusiasmo – iniziarono a censurare, bannare, criminalizzare chi non seguiva le “regole della comunità”.

La loro comunità, beninteso.

Ma non bastava neanche questo.

Il fantasma di quella che era stata un tempo Libertà continuava ancora a far paura.

Allora dopo aver imbavagliato il presente bisognava anche cancellare il passato; ed ecco riaffacciarsi le statue abbattute, i libri proibiti, la storia riscritta, le opere d’arte imbrattate.

La cultura della cancellazione – dal privato al pubblico, dalla Storia alle storie – dopo un lungo sonno di svariati decenni, riprendeva vita più energica che pria.

Si traeva ispirazione dai – fino ad un paio di anni prima tanto vituperati – roghi di libri di hitleriana memoria, ma anche dagli indici dei libri proibiti in Unione Sovietica, USA, Cile, e tanti altri Paesi, senza andare a scomodare Cina e Cambogia con i loro strabilianti successi devastatori.

Ma c’era ancora la lingua, con cui scrivere nuovi libri – pericolosi perché potevano riesumare quel fantasma di Libertà ormai introvabile – chissà dove si era cacciato? –  ma che pur da qualche parte avrebbe potuto  riaffacciarsi.

Fu rispolverata allora la “neolingua” di orwelliana memoria dove ogni termine aveva in realtà il significato opposto (democrazia per dittatura, libertà per censura, pace per guerra, salute per malattia, arte per mercimonio,  creazione per distruzione, istruzione per  ignoranza, giustizia per prevaricazione, scienza per dogma, verità per menzogna). 

Libertà per schiavitù.

 

Ma ancora non bastava; ci si accorse che il male non si annidava solo nelle parole. 

C’erano anche le lettere dell’alfabeto da tenere sotto controllo perché quel fantasma di Libertà – se pur sempre più malconcio – poteva ancora far paura.

Ed ecco, allora, un nuovo, straordinario capitolo in questa fantastica storia della graduale ma inarrestabile liquidazione di Libertà. Che viene scritto proprio in quella che è stata – ahimé quanti secoli fa? – la patria della cultura, della filosofia, del libero pensare: la Germania.

Infatti – udite udite e siamo arrivati con questa favola triste ai giorni nostri – un tribunale tedesco ha condannato, qualche giorno fa, un automobilista e non per uno scritto o per un discorso ma per una sola lettera dell’alfabeto, la lettera Z!

Il malcapitato aveva esposto l’ultima lettera dell’alfabeto latino sul lunotto posteriore della propria auto ma un tribunale di Amburgo lo ha giudicato colpevole di essere un filo-russo perché la Z è un simbolo dell’azione militare di Mosca, condannandolo ad una multa di 5.000 euro.

Il nostro “terrorista dell’alfabeto”, pur non negando di aver esposto la lettera Z, ha sostenuto davanti alla corte che si tratta semplicemente dell’ultima lettera dell’alfabeto e che cercare di stabilire un collegamento tra la lettera e il conflitto in Ucraina è un’ipotesi “molto, molto audace”.

Si è anche peritato di suggerire altre possibili interpretazioni, tra cui il film franco-algerino “Z” e un bar di Amburgo che portava lo stesso nome.

Ma gli inflessibili giudici teutonici non hanno voluto sentir ragioni ed hanno emesso il verdetto: la lettera Z è terroristica.

 


 

D’altra parte – per restare in Europa – anche il colosso assicurativo Zurich aveva appena deciso di togliere la grande “Z” bianca che campeggia su sfondo blu nel suo logo.

Ma – come si dice – se Atene piange Sparta non ride e anche dall’altro capo del mondo non si scherza; l’alfabeto è un pericolo tangibile!

Così in Corea del Sud la Samsung ha rimosso la lettera Z dal marchio dei suoi smartphone pieghevoli Galaxy Z.

D’altra parte il ministro degli Esteri ucraino Dmitry Kuleba lo aveva detto a chiare lettere, esortando la comunità internazionale a vietare la lettera Z, poiché dal punto di vista di Kiev essa rappresenta “la guerra di aggressione della Russia”.

 

Quale sarà la prossima lettera dell’alfabeto da eliminare nella successiva tappa della cancel culture?

In fondo se la Z è l’ultima lettera dell’alfabeto anche la prima non scherza; vi ricordate della “Lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, nella quale la protagonista, Hester Prynne, venne condannata a indossare una lettera scarlatta – A di adultera – ricamata sul vestito per aver commesso adulterio?

Dopo altre eventuali lettere – tra la A e la Z ce ne sono diverse da utilizzare, non c’è che l’imbarazzo della scelta – se la prenderanno con virgole, punti e punti esclamativi?

Tanto, in fondo, a cosa ci servono le lettere dell’alfabeto, abbiamo gli emoticon – le faccine – no?

E allora avanti tutta, verso un mondo surreale fatto  di dislessia e dissonanza cognitiva, dove il sonno della ragione è ormai la regola e i pensanti l’eccezione.

E non rammarichiamoci troppo del gramo fato di Libertà, in fondo si può vivere senza dèi o dee, basta obliarne l’esistenza e gli ultimi anni lo hanno dimostrato appieno.

Non è allora forse proprio questo dell’oblio di sé – e del sé – il senso finale della auspicata “mente-alveare” basata sulla raccolta dati che libererebbe finalmente – parola di Burrhus Frederic Skinner, acclamato psicologo americano – l’uomo dalla deprecabile illusione dell’esistenza di Libertà?

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