Antinatalismo, la volontà di estinzione

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Se dovessimo scegliere un’immagine per fotografare lo stato della nostra civilizzazione, saremmo incerti tra l’automobile di Thelma e Louise lanciata nel burrone al termine della fuga delle due amiche insoddisfatte, e il Titanic illuminato con i passeggeri impegnati in feste danzanti mentre la nave correva verso la fatale montagna di ghiaccio.
La gaia morte, una tenace volontà di estinzione mascherata da libertà, luce e diritti, si è impadronita dell’occidente terminale e il punto di non ritorno è stato probabilmente superato.

Se invece volessimo individuare il crocevia culturale di tutte le ideologie postmoderne, indicheremmo senz’altro l’antinatalismo, punta avanzata del cupio dissolvi ( ansia di annullamento) dell’umanità d’occidente, nuda e gaia dinanzi alla sua (meritata) uscita dalla storia. La femminista radicale statunitense Kimberle Crenshaw ha introdotto la categoria di intersezionalità per descrivere la sovrapposizione (“intersezione”) di tutte le discriminazioni, oppressioni e dominazioni sociali. Si tratta di categorie biologiche, sociali e culturali, come il genere/sesso, l’orientamento sessuale, la religione, le classi di età, i ceti e le stratificazioni sociali, la disabilità, la nazionalità e perfino la specie. L’idea della Crenshaw è che queste ed altre identità agiscano a molteplici livelli simultanei . Tutto è interconnesso per costruire molteplici forme di oppressione e discriminazione che si incontrano e incrociano.

Se utilizziamo – rovesciandolo. – il criterio della Crenshaw , diventa chiaro che l’antinatalismo è il punto d’incontro, il filo rosso che unisce tutte le ideologie del progressismo postmoderno. L’intersezione è l’odio per la vita e l’essere umano. Che cos’altro è – gettate le maschere e le giustificazioni teoriche – se non questo, il   sistema di valori dominante fondato sul disprezzo per la vita umana, comune all’abortismo forsennato visto come diritto universale; il femminismo radicale che considera la maternità un costrutto sociale e produce movimenti come quello delle donne “ child free” che rifiutano di essere madri; il climatismo green che odia l’uomo in quanto inquinatore, veleno di un’inesistente Arcadia naturale; l’antispecismo che mette sul medesimo piano l’uomo e gli altri viventi; l’eutanasia che toglie di mezzo malati, deboli, anziani, perfino poveri , in nome della “qualità della vita”; la promozione sin dall’infanzia di forme di sessualità sterili, disinteressate alla funzione primaria, naturale, quella della riproduzione della vita; la banalizzazione di ogni forma di dipendenza, dalle droghe ai farmaci,  all’alcool, dal gioco al sesso; l’ideologia della competitività sociale e dell’individualismo estremo che vede nell’Altro un nemico da abbattere o un oggetto da usare e possedere ?

Le linee che uniscono l’ideologia postmoderna – che chiama se stessa cultura della cancellazione – convergono in un centro il cui nucleo forte è l’odio per la vita, il disprezzo per l’essere umano e, di conseguenza, la pratica di comportamenti e stili di vita il cui tratto comune è l’interruzione dell’esistenza umana. E’ una costruzione profondamente pessimistica, angosciosa e angosciante al di là dell’ostentata allegria di naufraghi, il cui esito inevitabile è la fine di una civilizzazione devitalizzata e denaturata per estinzione volontaria, addirittura felice di cancellare se stessa, un autolesionismo di massa  paragonabile all’incomprensibile condotta suicida di certi cetacei che vanno incontro alla morte fuggendo dall’elemento naturale, l’acqua, per finire spiaggiati sulla terraferma.

Tutto ciò ha immense ricadute culturali, ambientali, geopolitiche, sociali, oltreché demografiche. Perciò, prima di esaminare l’universo ideale dell’antinatalismo ( nonché i suoi mentori e finanziatori) occorre uno sguardo d’insieme, o meglio un “pensiero meditante” con prospettiva storica e insieme filosofica.  La presa d’atto è la trasformazione del potere in biopotere, ossia in dominio sulla vita, a partire dalla sorveglianza capillare, dal controllo del corpo fisico e della capacità di determinare i comportamenti da parte dei padroni della narrazione dominante.

Nella teoria dello Stato di Hermann Heller, giurista e politologo tedesco ( 1891-1933), territorio (spazio) e popolo (tempo) sono i due elementi costitutivi dell’unità politica. Lo spazio e il piano configurano la forma politica; l’ oggetto immediato è l’ordinamento dello spazio, poiché su di esso si organizza e persiste la convivenza umana (il piano). Sintomi inequivocabili di decadenza sono sia il restringimento dello spazio, la perdita di posizioni territoriali, sia lo spopolamento o il crollo della natalità. Una comunità politica senza territorio scompare. Una comunità politica senza nascite si estingue. La coscienza spaziale di un popolo è geopolitica (geografia politica), quella temporale è demopolitica (demografia politica).

Hannah Arendt ricorda che “la natalità, e non la mortalità, è la categoria centrale del pensiero politico, poiché la politica si basa sulla pluralità degli uomini”. Tuttavia l’articolazione di questo evento prepolitico (la nascita di nuovi esseri umani e, di conseguenza, il susseguirsi delle generazioni) non è univoca, ma condizionata dal metabolismo demografico di ogni gruppo umano, creatura collettiva complessa che cresce e decresce, sottoposta a leggi che non conosciamo e sulle quali il potere cerca di influire.

La biopolitica ha due facce opposte, una “popolazionista” (antimalthusiana) e l’altra antipopolazionista (malthusiana). Popolazionismo e antipopolazionismo trascendono le dicotomie destra-sinistra, conservatori- progressisti, accidentali e prive di contenuto,  equivoci da cui uscire al più presto. Non sorprende che il socialismo originario, che si definiva umanitario, sia stato popolazionista. Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) diceva che nessun uomo è di troppo. “ Non c’è più nessuno al mondo – solo Malthus – che sia diventato antipopolazionista.”

La destra economica passa disinvoltamente dall’una all’altra posizione in base ai suoi interessi.  Nella fase presente, la tecnologia rende inutile l’ apporto di ingenti masse umane per mandare avanti la macchina produttiva, tecnologica e perfino la guerra, “igiene del mondo” per le oligarchie. Le diverse attitudini verso la crescita o il declino della popolazione hanno una sorprendente correlazione con lo spazio e con la guerra. Per il sociologo francese Gaston Bouthoul (196-1980), studioso dei fenomeni bellici, le potenze talassocratiche – marittime – ( Usa e Gran Bretagna ) sono antipopolazioniste, navali ( oggi aeronautiche e spaziali)  nel loro concetto di guerra, campi in cui la superiorità è una questione di ricchezza e tecnologia, e richiede un numero relativamente basso di combattenti. Le potenze continentali, invece, “vivono con l’ossessione della fragilità dei loro confini, della forza degli eserciti moderni e dello spaventoso consumo di uomini nelle guerre recenti” .

Anche Carl Schmitt rilevò la stretta correlazione tra i principi del nuovo diritto internazionale rivendicati dalle potenze marittime e le loro pressioni per ridurre la natalità, che considerava “argomenti immorali e disumani di una concezione del mondo individualista e liberale.”  Oltre la transizione demografica che si svolge silenziosamente da oltre mezzo secolo nelle camere da letto di tutta Europa – adesso anche altrove – avanza un’altra agenda  in lotta contro la vita. È una cultura della morte sganciata da ogni considerazione morale in senso tradizionale, spirituale o trascendente, che si esprime in una politica che scoraggia le nascite, alimentata dal clima metaculturale imposto e dalla legislazione “positiva”.

Questa corrente antinatalista di lungo periodo è alimentata da una tendenza senza precedenti nella storia: la trasformazione della procreazione in un atto volontario e riflessivo. Le tecniche farmacologiche, in particolare la pillola anticoncezionale e poi la banalizzazione dell’aborto, hanno prodotto nel tempo lo sganciamento della sessualità dalla procreazione. La tappa successiva, in corso con enorme dispiegamento di mezzi, è la promozione di ogni forma di sessualità sterile.  Bouthoul descrisse la trasformazione della mentalità (demografica) tradizionale: quando la procreazione era un fatto normale, la riflessione personale condizionava l’astinenza sessuale; quando il comportamento normale è la non procreazione, ciò che  richiede una valutazione cosciente e riflessiva è la sessualità orientata alla nascita di nuovi membri della comunità. E’ un paradosso di enorme rilevanza politica: l’inibizione procreativa, conseguenza della razionalizzazione generalizzata, è diventata senso comune e non ha più bisogno di diventare riflessiva, poiché è la condotta “normale” introiettata dalla maggioranza.

In questa cornice sfavorevole alla vita e alla continuità delle generazioni – in cui hanno un ruolo primario lo sfascio dell’istituzione familiare e la corsa al successo individuale in cui i figli sono un ostacolo – l’antinatalismo ideologico  gioca la sua partita senza riconoscere il suo ovvio approdo: la fine delle comunità, dei gruppi umani e delle civiltà che riesce ad improntare. O forse, esattamente quello è il suo obiettivo. Dopo la carneficina della gioventù europea sulle trincee della prima guerra mondiale e la spaventosa guerra chimica messa in atto dai contendenti, Paul Valéry scrisse: adesso le civiltà sanno di essere mortali. Nessuna, tuttavia, ha mai posto in essere un preciso progetto suicida.

In quanto ideologia negativa, l’antinatalismo mira a delegittimare moralmente chi ha figli per imporre un ethos anti familiare adattato al mondo post-umano di soggetti isolati e iperdigitalizzati imposto  dalle classi dominanti. Padri e madri , derubricati a genitori 1 e 2, sono vittime di un’autentica guerra. L’antinatalismo si fa strada modificando nell’intimo la natura umana e l’istinto di specie, attraverso forme di stravolgimento della natura, figlie delle teorie di psicologi come John Watson e Burrhus Skinner, i padri del comportamentismo, che ci trasforma in cavie da laboratorio sottoposte a rieducazione.

Il modus operandi antinatalista consiste nel capovolgere la realtà, affermando contro ogni evidenza che esiste una pressione sociale per avere figli invece di non averli. La realtà è opposta: dilagano le voci impegnate ad affermare che mettere al mondo figli è “eticamente problematico”, per motivi ambientali e non solo. Altri esprimono un gelido pessimismo in contraddizione con il mito del progresso: “riprodursi è un atto del tutto egoistico: tuo figlio o tua figlia vivranno in un mondo orribile”, asserisce un attore spagnolo assai popolare tra i giovani, Eduardo Casanova.

L’antinatalismo non solo contribuisce all’inverno demografico, ma esprime altresì una visione distruttiva rivolta alle donne: essere madre e femminista, asserisce, non è possibile perché il femminismo emancipatorio non può essere allineato con il “fronte natalista, maternalista (???) patriottico”. In questa ( confusa) guerra culturale, la vera battaglia per la trasformazione comportamentale della popolazione si svolge nell’edificazione di un immaginario condiviso che presenta la sterilità come orizzonte di civiltà e progresso. L’industria dello spettacolo è il principale strumento dell’ operazione: serie televisive, film, messaggi pubblicitari smantellano quotidianamente il “mito” della maternità e invitano di fatto ogni donna a escludere dal proprio orizzonte la generazione di figli, anche per evitare dolori e frustrazioni. Clock, una recente produzione Disney per ragazzi, racconta i “disagi” di una donna che subisce una pressione sociale crudele e soffocante perché abbia figli. Questa pressione, per quanto irreale e poco plausibile, trasmette allo spettatore adolescente l’impressione che non generare figli oggi sia una posizione eroica nel momento in cui è vero esattamente il contrario. Prodigi del conformismo finto trasgressivo a cui il potere educa le generazioni. Ultime generazioni, poiché la vittoria dell’antinatalismo comporta l’estinzione biologica della parte di umanità che presta fede alle sue follie suicide.

L’antinatalismo, dicevamo, è il punto di intersezione di vari movimenti e suggestioni al cui centro vi è la volontà di porre fine alla nostra civiltà. Non è senza significato che uno dei gruppi più attivi – impegnato anche in atti vandalici contro monumenti e opere d’arte – si chiami Extinction Rebellion. L’inversione raggiunge il suo massimo: si ribellano all’estinzione  della natura lavorando di fatto per quella dell’homo sapiens. Tutto si tiene nel breviario suicida delle marionette guidate dalla volontà misantropica e antiumana dell’ élite.

Roberto Pecchioli

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