Avevamo…la moneta

Moneynewold

Abstract

Nelle prime comunità umane la moneta non esisteva, i rapporti interni erano incentrati sul dono. La moneta non metallica nasce in comunità di epoca storica come semplice unità di conto dei rapporti di dare e avere, quando i compiti interni si specializzano.
Il baratto è, in origine, una forma di scambio tra appartenenti a comunità diverse o, successivamente, tra appartenenti alla stessa comunità che già conoscono la moneta come strumento di pagamento.
La moneta metallica è figlia dell’attribuzione di valore ai metalli preziosi e nasce come strumento di pagamento finalizzato all’equità e all’ordinato svolgimento della vita comunitaria.
La moneta diventa riserva di valore agganciata all’oro in corrispondenza del disgregarsi del concetto di comunità, dell’affermazione dell’individualismo imprenditoriale, dell’esplosione dei commerci dopo la conquista delle Americhe.
La nascita delle banche coincide con il concetto di scarsità del bene monetario e della sua necessaria custodia/prestito a interesse: il che implica una progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
Il bene moneta in quanto riserva di valore deve essere tutelato da ogni forma di deprezzamento (inflazione).
Le economie forti sottomettono le economie deboli soprattutto attraverso il meccanismo del debito. Le crisi di sistema sono inevitabili.
Il ruolo di garanti delle banche centrali controllate dagli stati nazione è cessato con la privatizzazione delle banche centrali stesse.
L’informatizzazione del sistema delle transazioni economiche ha portato a compimento il processo di smaterializzazione della moneta sganciandolo dall’oro.
Le banche sono creatrici di moneta virtuale.
I rapporti interbancari sono regolati da una moneta interbancaria che è una semplice unità di conto.
Necessità di riscrivere i parametri contabili di riferimento.

 


1. Il dono

Le prime comunità umane erano immerse nella natura, dalla natura ricevevano tutto per vivere, dalla natura erano uccise.
Di fronte all’imponenza delle foreste, alla ferocia delle belve, al fragore delle tempeste, vivere è di per sé un dono, un qualcosa che ti viene elargito da quella stessa natura da cui sei circondato; tu, come essere vivente, vieni “dopo” e, in ragione di questa posterità, sei sempre e comunque in debito verso l’immenso tutto che presto comincerai a chiamare Dio e che cercherai di ingraziarti, per continuare a vivere, con doni in contraccambio, vale a dire sacrifici rituali.
Decine di migliaia di anni della storia umana sono stati caratterizzati dalla condivisione dalla gratuità dal dono e dalla fiducia: le comunità erano coese di fronte all’altro da sé, a quel mondo esterno che dona e toglie la vita secondo disegni imperscrutabili. La relazione interna al clan, o tribù che dir si voglia, era cooperativa, ma lontana dall’edulcorazione su cui si incentrano le narrazioni su un’età mitica per sempre perduta. Perché il dono ha in sé l’affermazione del potere sull’altro: obbliga chi lo riceve a sentirsi in debito, grida in faccia all’altro, sia esso un dio o un umano, che così come io ho ricevuto tu adesso ricevi, così come io ho percepito la mia “inferiorità” nei tuoi confronti, così tu ora devi fare qualcosa per me, mettere al mio servizio la tua “superiorità” (dovuta a forza, intelligenza, età) per aver ricevuto in cambio da me cibo, sesso, prestigio… Il dono lega i membri della tribù in maniera indissolubile: i giovani ai vecchi, gli uomini alle donne, il fedele all’officiante. In questo senso, la relazione non è né verticale (maschile) né orizzontale (femminile), ma è semplicemente circolare (o, il che è lo stesso, verticale e orizzontale insieme, in un alternarsi lento, nel succedersi delle generazioni di posizioni e di ruoli), in armonia con la ciclicità del tempo (il giorno e la notte, le fasi lunari).

2. La conchiglia

Quando le comunità umane crebbero e cominciarono la produzione specialistisca di oggetti e strutture, nonché la fornitura di servizi (primo fra tutti quello della cura e della guarigione dalle malattie), pure se ciò significò il primo passo verso quei cambiamenti che sarebbero intervenuti in epoche di molto successive, i rapporti tra gli appartenenti al gruppo continuarono a essere imperniati (né avrebbe potuto essere diversamente) su un modello sinallagmatico di tipo fiduciario, figlio della civiltà del dono da cui si erano sviluppati per una sorta di gemmazione dovuta alla crescita. Chi produceva beni o forniva servizi per gli altri acquisiva un credito, la cui origine e il cui ammontare erano noti a tutti: la memoria collettiva ne era custode, senza bisogno di strumenti che lo contabilizzassero. Altrove (ed è il caso che qui ci interessa) la visualizzazione plastica di questo credito poteva essere un oggetto simbolico quale per esempio (e come in effetti è stato in alcuni luoghi)… una conchiglia.
La conchiglia non ha nessun valore in sé, ma funge solo da memento del lavoro fatto o del servizio reso: è l’equivalente del sacrificio rituale, un qualcosa dato in cambio all’artifex per il suo dono. La conchiglia è una moneta virtuale a tutti gli effetti, perché la conchiglia potrebbe anche non essere adottata, senza per questo inficiare la validità dei rapporti intracomunitari. Ed è in ragione di questi rapporti che nessuno “bara” andando a raccogliere conchiglie sulla spiaggia per gonfiare il suo credito, perché tutti hanno precisa contezza dell’ammontare di quel credito e perché “barare” equivarrebbe a porsi fuori dal patto sociale che lega i membri della comunità gli uni agli altri (ostracismo). Ne deriva che la conchiglia non può essere accumulata, può essere solo ceduta, alimentando gli scambi e la vita comunitaria. La conchiglia svolge la funzione primaria della moneta, quella di unità di conto.

3. Il baratto con lo straniero

In queste antiche comunità umane, non è dato trovare forme di baratto strutturate, in quanto “barattare” confligge con condividere: si baratta con gli estranei, con gli appartenenti ad altri gruppi, con i quali non sussiste alcun rapporto di fiducia; che cosa se ne farebbe, infatti, un potenziale nemico, membro di un’altra tribù, delle mie conchiglie? Per lui non rappresenterebbero nulla, perché quello che per me vale come unità di conto, per lo straniero rappresenta l’insignificante sovrabbondanza di un oggetto naturale “comune”.

4. La moneta metallica

Con le prime lavorazioni dei metalli, l’affrancamento dai bisogni primari e l’oggettivazione dell’innato amore per la bellezza in manufatti convenzionalmente ritenuti preziosi, quali quelli in oro argento o rame, le conchiglie (o oggetti simili), in comunità particolarmente estese e numerose, sono sostituite, in tutto o in parte, da monete reali in metallo, con un loro “peso” e un loro valore intrinseci, utilizzabili anche negli scambi esterni alla comunità, garantite dall’autorità che presiede al governo di quella stessa comunità. La moneta in metallo, oltre che unità di conto, diventa così anche strumento di pagamento, accettato in nome dell’aspirazione all’equità: istanza etica direttamente discendente dall’originario spirito di condivisione.
Ciò almeno fino a quando le comunità mantengono un grado di coesione e di solidità tali da consentire loro di reggere alle aggressioni esterne (la Roma augustea ne costituisce il paradigma ideale); ma nel momento in cui guerre o calamità naturali portano alla disgregazione della comunità, alla sua frammentazione e al rimescolamento dei suoi membri con quelli di altri gruppi, il riferimento alla moneta come simbolo fiduciario di rapporti equi di debito credito giocoforza cessa e prende il sopravvento l’attribuzione di valore al metallo prezioso, argento oppure oro (fase bimetallica), e poi al solo oro, in quanto bene di valore universalmente accettato (monete sia d’argento che d’oro e poi solo d’oro). E’ quanto avvenne, per esempio, in Europa occidentale, negli anni e nei secoli a seguire alla deposizione di Romolo Augustolo nel 476 d.c. . La moneta assurge a vera e propria riserva di valore, anche se il potere delle autorità emittenti tenderà per parecchi secoli, in nome della forza coercitiva potenziale nei confronti dei sudditi, ad appropriarsi della differenza di valore tra valore dichiarato delle monete ed effettiva quantità di metallo prezioso acquistato/impiegato nel conio delle stesse: maggiore è la differenza, più grande è il potere del sovrano (c.d. signoraggio).

In quella fase storica, l’accumulazione di moneta, che pure avrebbe dovuto seguire in automatico al cambiamento di paradigma, non sarà significativa per parecchio tempo, rimanendo confinata a pochi soggetti e per ammontari relativamente piccoli, a causa della esiguità delle possibilità di acquisto di beni e del numero di monete circolanti. E anzi, in alcuni contesti nordeuropei, di comunità feudali relativamente chiuse, attraverso il meccanismo della “renovatio monetae”, vale a dire una tassa sul possesso del denaro, sarà l’uso a essere incentivato, inducendo una distribuzione della ricchezza meno diseguale rispetto a contesti simili, ma con regole diverse.


5. Il baratto intracomunitario

Perché, in effetti, più in generale, in tempi di rarefazione delle autorità di conio e di incertezza dell’ identità dei popoli, in comunità disperse e impaurite, tornerà in auge il baratto: agli albori della storia confinato agli scambi con il nemico, sarà ripristinato laddove il mezzo risulterà essere funzionale, non al ritorno impossibile ad un modello di scambio fiduciario tra membri di una stessa gens, in cui il rapporto può anche rimanere in sospeso ad libitum, quanto piuttosto alla soluzione di problemi pratici di vita quotidiana, in cui il fattore tempo (di chiusura della relazione) non sia troppo dilatato, onde evitare i rischi di insolvenza di cui le guerre e/o le calamità sempre incombenti potrebbero essere foriere. In queste forme, anche il baratto, in quanto sostitutivo dello scambio con moneta aurea, concorre, al pari di questa, all’affermarsi della competizione sociale e alla propensione (potenziale) all’accumulo. Il baratto esclude il dono e (in maniera controintuitiva) conduce, in nome della stessa logica che porta in auge le monete d’oro, all’allentamento del patto comunitario di solidarietà. Le mani scambiano beni, ma le menti pensano all’oro…

6. L’oro come bene “carente”

Nel contempo, la singolarità individuale acquisisce gradualmente rilievo, mentre si afferma sempre più l’idea di una libertà necessaria al pieno sviluppo delle potenzialità umane, di contro alla rigidità dell’ordine costituito (libertà che nelle società primigenie era semplicemente un nonsenso: non c’era bisogno di scappare dal ventre caldo e protettivo del cerchio delle capanne, non era avvertito l’istinto di “mettersi contro”). Nasce il concetto di intrapresa economica.
L’oro (e, per traslazione, la moneta) accende bramosie e scatena conflitti per il suo possesso, essendo il tipico “bene carente”. All’interno di questa ottica visuale, la natura cessa di essere dispensatrice di doni, diventando matrigna avara, mentre si affema il paradigma relazionale tipicamente figlio dell’idea di “carenza”, vale a dire quello dell’homo hominis lupus in seguito esplicitato da Hobbes. Perché è proprio di fronte a un bene scarso che si scatenano gli appetiti e le conflittualità finalizzate all’acquisizione di quel bene, si attua una differenziazione tra esseri umani in base alla quantità di bene posseduto, la ricchezza degli uni genera la povertà degli altri.
Sarà, comunque, solo con l’esplosione degli scambi commerciali avvenuta in epoca rinascimentale ad opera dei mercanti italiani, prima, e con le conquiste coloniali europee chiuse dall’affermarsi della potenza egemone inglese, poi, che si avrà l’innesco del meccanismo seguente:

aumento dell’offerta dei beni – induzione dei bisogni – sviluppo del commercio – arricchimento dei commercianti – accumulazione di denaro/monete/oro – depredazione delle ricchezze delle colonie – prestito a interesse – nascita delle banche.

7. Il gold standard

I banchieri italiani custodiranno oro in cambio di carta moneta (la cambiale), la Banca d’Inghilterra sul finire del Seicento, riprendendo le idee di Locke (ma codificando un dato emergente dalla realtà), parametrerà la sterlina a una certa quantità d’oro, trasformando definitivamente la moneta da simbolo delle relazioni sociali a bene oggetto di accumulazione, da titolo di credito intracomunitario a titolo di debito universale (concezione obbligazionaria della moneta), scambiabile, in ragione della sua convertibilità in oro, con qualsiasi altro bene o servizio e, perciò, dotata, oltre che di un valore estrinseco che prescinde da quello di conio, anche della capacità di generare ricchezza intrinsecamente, in ragione del meccanismo del prestito a interesse. Per acquisire beni e servizi (di necessità primaria o indotta), ho bisogno di moneta; la moneta mi viene prestata e io dovrò adoperarmi per restituire il tantundem maggiorato di una percentuale che arricchisce il prestatore, in ragione della sua posizione. Questo meccanismo, proprio per afferire a un bene carente, come scritto sopra, implica di necessità la sottrazione di monete a qualcuno a vantaggio di qualcun altro, l’adoperarsi concreto perché qualcuno perda e qualcun altro vinca (il fallimento del concorrente), la distruzione di un pezzo di mondo materiale (di natura) ai fini della creazione di plusvalore, l’asservimento del lavoro alla funzione pagatoria. In una parola, il travaso di ricchezza dai (non ancora completamente) poveri ai (già e sempre più) ricchi.

8. Articolazioni del capitale

In estrema semplificazione, abbiamo avuto, fino a quasi tutto il ventesimo secolo,
a) un capitale monetario oggetto di accumulazione,
b) delle banche centrali (emittenti quelle stesse monete), controllate dagli stati nazione in veste di garanti, con le loro riserve in oro, del valore delle monete emesse (la stampa di moneta da parte delle banche private è fenomeno eccezionale e localizzato, ostracizzato dal sistema per i rischi di abuso e di appropriazione indebita),
c) delle banche private (banche commerciali e banche ordinarie) depositarie dei risparmi privati, i quali, a partire dall’inizio della rivoluzione industriale, escluse qualche brusca discesa e risalita, non hanno mai smesso di crescere in termini di quantità assoluta e potere d’acquisto relativo,
d) una circolazione di denaro, a partire da uno stock monetario dato, sotto forma di: d1) retribuzione delle prestazioni lavorative, d2) ritorno degli investimenti produttivi, d3) rendita derivante da patrimonio immobiliare, d4) ricompensa in interessi per il “capitalista” prestatore, che nella stragrande maggioranza dei casi è la banca privata.
In questo contesto, è necessità primaria di tutti i detentori di moneta che lo stock rimanga stabile e non si inneschino meccanismi inflativi di deprezzamento del proprio capitale, piccolo o grande che sia (la finitezza del bene moneta determina una convergenza antideologica di aspettative tra proletari “rentiers” e capitalisti), fatte salve due eccezioni:
1) il caso di economie/monete deboli, cioè afferenti a sistemi economici/stati poco produttivi o politicamente inaffidabili, al cui interno la leva svalutativa è usata per aumentare l’appeal commerciale verso i beni del sistema, di contro a quelli “più cari” dei sistemi economici/statali a moneta forte;
2) la posizione di chi riceve prestito e ha nei suoi desiderata quello di vedere svalutato il proprio debito in termini reali, se non nominali (posizione fragile, in quanto minoritaria, che può acquisire rilievo solo in casi particolari, al di là di una certa soglia numerica, all’interno delle economie deboli di cui al punto 1) precedente).

9. Monete forti e monete deboli

Gli interessi del capitale privato, e delle banche che lo detengono, hanno sempre, in maniera più o meno manifesta, determinato gli indirizzi delle politiche monetarie degli stati nazione, trasformando il “governo della polis” nella mera esecuzione di direttive a tutela del bene moneta in quanto tale: vale a dire tutto quanto è necessario al suo mantenimento di valore, all’esercizio della funzione di riserva, in specie nel caso di monete forti, scongiurando ogni avversa spinta al deprezzamento o di inflazione fuori controllo. Le monete deboli sono confinate nell’irrilevanza, relegate a semplice strumento di pagamento di economie marginali e locali, senza influenza sul capitale vero circolante a livello globale (escluso il caso del loro aggancio a una o più monete forti), e le economie “sottosviluppate” a cui afferiscono sono asservite a quelle “avanzate”, attraverso: a) il prelievo predatorio di risorse umane e naturali (che la debolezza della moneta locale incentiva e agevola in una perversa spirale autodistruttiva), b) il giogo del prestito a interesse, che crea debito sempre maggiore, attraverso l’artificio del c.d. interesse composto (quand’anche non anatocistico). In questo modo, si consolida il travaso di ricchezza dai più poveri ai più ricchi, in una spirale di concentrazione sempre più accentuata del capitale.

10. Crisi cicliche di sistema

Gli sforzi, spesso non coscientemente coordinati, ma di fatto convergenti, messi in atto dal sistema bancario a tutela del bene moneta, per l’interposta persona degli stati nazione (fintanto che percepiti come attori influenti e ineliminabili), hanno determinato una certa stabilità nell’economie forti, ma non hanno potuto evitare l’inevitabile, vale a dire le crisi cicliche di sistema, determinate sostanzialmente da tre fattori:

A) la pressione da parte di settori di economie forti, aggiuntiva a quelle delle economie deboli (di norma destinate all’insuccesso, ma, in circostanze favorevoli potenzialmente pericolose, specie se raccordate con le prime), volte a deprezzare il valore della moneta, per superare crisi produttive (dal 1929 ai primi anni 2000);

B) le azioni intraprese da singoli attori di intermediazione del prestito per aumentare i lucri marginali a danno dello stock globale, attraverso la truffa o la creazione di moneta extra (dalla Banca Romana a Goldman sachs);

C) le difficoltà connesse alla messa in pratica (per l’opposizione politica o militare dei popoli) delle politiche di aggiustamento strutturale volte al recupero sotto altra forma dei debiti non pagati (dall’Argentina alla Grecia, passando per l’Africa).

Le crisi ci sono state, ma la “macchina” è sempre ripartita, in nome della crescita produttiva, o meglio del mito della crescita produttiva illimitata e in ragione delle azioni di tamponamento (anche blandamente concessorie in termini di deprezzamento inflattivo o di rimodulazione dei debiti), messe in atto dai Governi del Primo Mondo (e tuttavia, la vera ragione, sottaciuta, di ogni ripartenza risiede nel non ancora avvenuto esaurimento delle risorse globali del pianeta, vale a dire nella non ancora completa distruzione della natura, dal cui esistere dipende l’attribuzione di un qualsivoglia valore al bene moneta: in assenza di fungibilità con altri beni primari, essa risulterebbe inutile, portando alla morte tutti i moderni re mida, che si trovassero ad abitare una terra desertificata e non più fertile). Del pari, il riaffermarsi del ruolo delle banche centrali quali garanti e custodi formali del valore della moneta e il divieto di creazione di moneta extra, anche attraverso l’adozione di normative sulla carta più stringenti e punitive verso comportamenti abusivi o truffaldini, ha cercato di infondere sicurezza a tutti i detentori di ricchezza in stato di shock post crisi.

11. Banche centrali privatizzate

Verso la fine del ventesimo secolo, il capitale decide di poter fare a meno della garanzia dello stato nazione, indebolito dalla globalizzazione transnazionale del commercio, espropriando il controllo delle banche centrali (le banche centrali diventano società per azioni) e facendolo traslare dai governi alle banche private (le banche private diventano azioniste di maggioranza delle banche centrali): in tal modo le banche assurgono a veri soggetti arbitri delle sorti umane, in virtù della dipendenza dalla moneta di ogni prodotto naturale o artificiale. Agli stati nazione viene lasciato il lavoro “sporco” di gestione dei conflitti sociali politici e militari che si innescano al ricorrere delle crisi, mentre le banche hanno campo libero nel “gioco” della movimentazione dei capitali (anche attraverso l’abolizione della distinzione tra banche commerciali e banche ordinarie).

12. Moneta elettronica

La progressiva informatizzazione di tutte le transazioni (che avrebbero dovuto essere) monetarie, avvenuta a seguito della rivoluzione tecnologica esplosa alla fine del ventesimo e all’inizio del ventunesimo secolo, ha portato ad accentuare sempre più il fenomeno della non effettiva corrispondenza a un controvalore in oro della carta moneta messa in circolo dalle banche (signoraggio bancario). Ciò avveniva già (per una sorta di vizio originario connaturato al sistema) con i primi banchieri italiani, grazie all’istituto della riserva frazionaria (cioè la possibilità per le banche di prestare denaro a prescindere dall’effettiva presenza in cassa di un riserva equivalente: istituto mai decaduto e, anzi, rafforzatosi nei secoli), ma solo ora il fenomeno acquisisce una rilevanza per così dire “retroattiva” sul concetto stesso di moneta, rendendo, tra l’altro, inevitabili le crisi cicliche di sistema di cui sopra, perché (nonostante la messa in atto di qualsivoglia politica di conservazione del valore e di repressione contro gli attacchi esterni) saranno sempre (alcuni de) gli attori interni al sistema bancario che cercheranno (anche se ciò confligge con l’irrealistica razionalità dell’homo economicus teorizzata dagli economisti), in nome di un banalissimo istinto di avidità, di aumentare i lucri marginali a danno dello stock globale, come scritto dianzi, proprio giocando sulla possibilità di creare moneta con un semplice click sulla tastiera di un computer.

La moneta elettronica virtualizza l’economia, sgancia la moneta dallo standard aureo, mette nel nulla la sovranità monetaria delle nazioni, accentra nei gestori degli scambi, le banche, il potere di creare moneta: centrale diventa lo scambio (non il possesso) e la sua contabilizzazione. Il capitale, oggi, lungi dall’essere (se non in minima parte) sommatoria classica di investimenti consumi e risparmi, si compone di (e si scompone in) un fluire ininterrotto di transazioni, spesso meramente speculative, cioè sganciate da scambi reali di beni e servizi, tutte “agite” dall’intermediazione obbligatoria delle banche, le quali, in questo loro operare tendono alla concentrazione massima e alla sinergia operativa con accordi di cartello, più o meno espliciti.

13. Comunità bancarie

In questa ottica, le banche attuali costituiscono una comunità regolata al proprio interno da rapporti fiduciari, sostanzialmente convergenti verso la tutela del bene comune (loro), in cui il bit ha sostituito la conchiglia, in una auto-attribuzione di potere poco controllabile e possibilità “creative” illimitate, riportando, per certi versi la moneta alla smaterializzazione delle origini, pur a fronte di una narrazione dominante che continua a legare la moneta allo stato nazione e alla riserva aurea: narrazione funzionale a garantire, in definitiva, il concetto stesso di ricchezza, che, altrimenti, come ai tempi delle conchiglie, in virtù della smaterializzazione ora in atto (scomparsa del circolante fisico e virtualizzazione degli scambi tra banche), risulterebbe privo di senso. E funzionale, soprattutto, a evitare una crisi globale di fiducia verso il bene moneta, che, allo scoccare (eventuale) dell’ora x della consapevolezza collettiva sulla virtualità monetaria in atto, potrebbe essere devastante.

Banche unite, dunque, nel gestire (manipolare) l’informazione correlata alla moneta. Ma unite anche da scambi monetari loro precipui.
La contemporaneità vede, infatti, la nascita della c.d. moneta interbancaria (M0), che sostituisce le “antiche” camere di compensazione presso le banche centrali statali, una vera e propria moneta parallela che, all’interno del sistema delle monete forti, regola i rapporti di dare e avere tra gli intermediatori del credito e le banche centrali loro emanazione; una semplice unità di conto, in forma virtuale, invece che plastica e tangibile come la conchiglia, che garantisce (o dovrebbe garantire) al sistema il mantenimento dell’equilibrio nel vorticare turbinoso degli scambi speculativi.

14. Mutamento di natura della moneta

L’affermarsi della moneta elettronica dovrebbe implicare che la quasi totalità di quello che noi chiamiamo denaro è di fatto creato dalle banche dal nulla e che la sua natura confligge con la disciplina teoricamente definitoria del concetto di moneta delle società occidentali. Viene chiamato moneta scritturale, ma, a rigor di norma, dovremmo considerare una moneta siffatta inammissibile e illegittima. Al contrario essa è l’unità base degli scambi finanziari.
Conchiglia o moneta, dunque?
All’origine l’uso (eventuale) delle conchiglie era basato sulla fiducia, attualmente il ricorso alla moneta scritturale (escluso il caso della M0) è figlio del contrario della fiducia, cioè dell’inganno, perché lo scriptural money per le banche è una unità di conto, mentre per tutti gli altri player, stati sovrani compresi, è una “moneta d’oro”; per le banche non ha nessun costo (basta immetterlo in circolo grazie all’attivazione di un software), mentre per l’economia reale il denaro equivale a lavoro e sacrificio (senza considerare il denaro proveniente da attività illecite, la cui smaterializzazione, attraverso le operazioni finanziarie consentite dal sistema, ne permette la “pulizia” e il riciclaggio).
Ma soprattutto è un inganno perché le banche pretendono in restituzione “denaro vero”, vale a dire oro in cambio di conchiglie, con conseguenze non irrilevanti per la scienza contabile. Infatti, per la concezione obbligazionaria della moneta, nata nel 1600, come scritto più sopra, affinché la moneta possa costituire un titolo per ottenere un «qualcosa» in contraccambio dall’emittente, occorre che essa sia convertibile in un «qualcosa» che l’emittente stesso possieda. Questo qualcosa si chiama riserva e, di fronte al possessore della moneta, l’emittente è in una posizione di debito. In mancanza (totale o parziale) di tale presupposto, la moneta diventa (come di fatto sta avvenendo adesso) un bene circolante, dotato di valore intrinseco: chi legalmente la produce ne trae un arricchimento del proprio capitale, chi la detiene vanta un diritto reale su di essa.

15. Nuove definizioni contabili

Ne consegue che, per lo stato e la banca centrale la collocazione della moneta fiat nelle passività è un retaggio culturale legato al valore di conio e alla convertibilità in oro di monete e di banconote, tuttora portato avanti in maniera tralatizia e artatamente strumentale come ostacolo insormontabile a meccanismi di soluzione dell’insolvenza debitoria statale che passino attraverso la stampa di cartamoneta (laddove questa facoltà sia stata ancora lasciata allo stato stesso), rafforzando sempre più il ricatto sul debito stesso; ma, soprattutto, per le banche private, la messa in circolo di moneta scritturale costituisce un debito vero solo nella misura in cui sussista la probabilità di una conversione dello stesso in contante; e tale misura è data dal capitale messo a riserva per coprire le richieste di restituzione (evenienza vieppiù scongiurata presso i clienti, incentivando tutti i mezzi alternativi di pagamento). Assunto, come già chiarito, che la riserva a garanzia delle poste c.d. di debito è per definizione frazionaria (anche nelle relazioni interbancarie), in una misura che è tanto più bassa quanto più il capitale bancario si concentra in economie di scala tali da massimizzare, anche con il supporto della tecnologia, meccanismi compensativi immediati, ne consegue che buona parte di ciò che si trova nel passivo dovrebbe passare tra i ricavi e, non essendo divisibile tra i soci, confluire nel capitale netto, unitamente agli interessi generati. Se ciò non avviene è a causa, oltre che (ripetiamo) della copertura legale fornita dalla prassi amministrativa della riserva frazionaria (la c.d. moneta intera ridimensionerebbe la propensione speculativa delle banche commerciali), dalla immissione, da parte dalla banca centrale, di liquidità nel sistema nei momenti di crisi economica (ciò mantiene bassa la propensione alla conversione in contante dei titoli), dall’arbitrio manipolatorio consentito nella redazione dei bilanci, pur a fronte di una correttezza formale all’apparenza ineccepibile, che deriva dalla esasperata tecnicalità, sconfinante nell’illeggibilità, delle modalità di scrittura dei bilanci stessi.

16. Conclusioni

Assunta per vera la sommatoria di questi “inganni”, potremmo, quindi, rispondere che, fatto salvo il caso dei rapporti interbancari, dove vige una consortile unità di intenti (che non è proprio la stessa cosa della reciprocità comunitaria delle origini), la moneta attuale è assimilabile a una anti-conchiglia, perché dell’antica unità di conto ha la virtualità, ma non la fiduciarietà, né la illimitatezza palese dello stock (viene dichiarato, appunto, il contrario).
La moneta ha cessato di essere un bene carente, ma non lo si può dire, né la si può o vuole cambiare, men che meno abolire (eppure l’uomo ne ha fatto a meno per decine di migliaia di anni). Uniche alternative sono le c.d. criptomonete e le reti comunitarie di scambio per lo più agganciate a monete deperibili, cioè con un incentivo all’uso e un disincentivo all’accumulazione. Ma, mentre una criptomoneta, pur se completamente indipendente dal sistema di intermediazione delle banche (grazie alla tecnologia blockchain), per essere davvero alternativa, non deve avere come base di partenza uno stock limitato né avere come riferimento il tasso di cambio con le monete forti tradizionali (altrimenti ricade nei meccanismi speculativi classici delle monete c.d. auree e viene riassorbita dal sistema, al pari di uno strumento finanziario qualsiasi), le reti comunitarie di scambio scontano il loro localismo, la scarsità di volumi e la limitatezza degli aderenti, finendo con il non riuscire a ridurre il totale di moneta ufficiale circolante.
Il potere è destinato quindi a rimanere nelle mani dei gestori della moneta attuali, a meno che i detentori della tecnologia informatica utilizzata dalle banche per la virtualizzazione delle loro transazioni decidano di “fare in proprio”, disintermediando le banche stesse e connettendo i miliardi di utenti delle loro reti globali, in modo da offrire loro la possibilità di acquistare e di vendere utilizzando una nuova moneta virtuale, concorrenziale, in virtù di una scontistica dedicata, rispetto a quella ufficiale. Ma sarà rivoluzione vera solo se la moneta dei social network sarà sganciata dalle monete forti e dotata di un demurrage disincentivante l’accumulo.

Altrimenti, ricadremo nel solito inganno, con in più l’acquisizione dei dati personali concernenti i movimenti di denaro per le compravendite.
Altrimenti, invece di una nuova moneta, avremo che qualcuno, forse le stesse banche se compreranno le reti sociali, avrà fatto “bingo”, perché avrà messo le mani sull’oro del terzo millennio: la conoscenza non trafugata, ma trasferita consensualmente, dei conti privati di miliardi di persone.

Nota
Il testo che precede è privo di note e di riferimenti bibliografici. In questo è per certo poco “scientifico”… Ma non a caso. L’invito è, infatti, a tutti i lettori di approfondire per conto proprio gli argomenti che più interessano cercando di costruirsi una propria “verità” sulla materia.
Solo a titolo indicativo può essere utile leggere Baudrillard e Galloni, le economie del dono, il Potlac, economisti come Felix Martin e Orzi, documentarsi sulle monete alternative, ecc…

Anonimo

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