Come Draghi ha distrutto l’Italia

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La defenestrazione di Mario Draghi ha lasciato inorridito l’establishment italiano e internazionale. Non è una sorpresa. Quando è stato nominato primo ministro italiano all’inizio dello scorso anno, le élite politiche ed economiche europee hanno accolto il suo arrivo come un miracolo. Praticamente tutti i partiti del Parlamento italiano – compresi i due partiti ex “populisti” che hanno vinto le elezioni nel 2018, il Movimento Cinque Stelle e la Lega – hanno offerto il loro sostegno. Il tono della discussione è stato ben colto dal potente governatore della regione Campania, Vincenzo De Luca (PD), che ha paragonato Draghi a “Cristo” stesso.

Tutti erano d’accordo: un governo Draghi sarebbe una benedizione per il Paese, un’ultima opportunità per redimere i suoi peccati e “fare di nuovo grande l’Italia”. Draghi, dicevano, semplicemente in virtù del suo “carisma“, della sua “competenza“, della sua “intelligenza” e del suo “peso internazionale“, avrebbe tenuto a bada i mercati obbligazionari, attuato le riforme tanto necessarie e rilanciato l’economia stagnante dell’Italia.

Ahimè, la realtà non è stata esattamente all’altezza delle aspettative: Draghi lascia un Paese a pezzi. Secondo le ultime previsioni macroeconomiche della Commissione europea, l’anno prossimo l’Italia registrerà la crescita economica più lenta del blocco UE, pari ad appena lo 0,9%, a causa di un calo della spesa per i consumi dovuto all’aumento dei prezzi e alla riduzione degli investimenti delle imprese, dovuta all’aumento dei costi dei prestiti e dell’energia, nonché alle interruzioni delle forniture di gas russo.


L’Italia sta anche sperimentando uno dei tassi di inflazione in più rapida crescita in Europa, che attualmente è all’8,6%, il livello più alto in più di tre decenni. Anche i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani sono in costante aumento da quando Draghi è salito al potere, quadruplicandosi sotto la sua guida; oggi sono al livello più alto in quasi un decennio.

Questa “policrisi” ha avuto ripercussioni sulla società italiana: 5,6 milioni di italiani – quasi il 10% della popolazione, tra cui 1,4 milioni di minori – vivono attualmente in povertà assoluta, il livello più alto mai registrato. Molti di loro lavorano, e questo numero è destinato ad aumentare poiché i salari reali in Italia continuano a diminuire al ritmo più alto del blocco. Nel frattempo, quasi 100.000 piccole e medie imprese (PMI) sono a rischio di insolvenza – un aumento del 2% rispetto allo scorso anno.

Alla faccia di “Super Mario”, dunque. Certo, si potrebbe obiettare che altri Paesi stanno vivendo problemi simili, ma sarebbe un errore lasciare Draghi fuori dai guai. Egli è stato uno dei più strenui sostenitori delle misure che hanno portato a questa situazione, essendo stato uno dei promotori delle dure sanzioni dell’UE contro Mosca, sanzioni che stanno paralizzando le economie europee, lasciando la Russia sostanzialmente indenne.

Tutto questo potrebbe far capire perché un recente sondaggio ha mostrato che il 50% degli italiani non è soddisfatto dell’operato del governo. Eppure, nonostante questi risultati poco incoraggianti, quando Draghi ha annunciato la sua intenzione di dimettersi, l’establishment italiano è andato in fibrillazione. In quella che passerà alla storia come una delle più patetiche dimostrazioni del conformismo sicofante della società italiana, quasi tutte le categorie professionali si sono affrettate a lanciare il proprio appello per implorare Draghi di restare: non solo ricchi imprenditori, come era prevedibile, ma anche medici, farmacisti, infermieri, sindaci, rettori di università, ONG, intellettuali progressisti e persino la CGIL, il più grande sindacato del Paese.

In modo ancora più pietoso, i media italiani hanno dato ampio spazio a diverse “manifestazioni pro-Draghi” – che contavano non più di qualche decina di persone. Forse la cosa più comica è che una delle maggiori agenzie di stampa del Paese, Adnkronos, ha persino raccontato di come diversi senzatetto siano usciti per mostrare il loro sostegno a Draghi. Uno di questi è stato citato dicendo:

“Draghi sta facendo la differenza. L’Italia ha recuperato prestigio e credibilità grazie a lui. Come senzatetto posso testimoniare che ora c’è una maggiore attenzione nei nostri confronti e questo grazie a Draghi”.

Anche l’establishment internazionale occidentale si è schierato a favore di Draghi. Dal Financial Times al Guardian, fino al commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, tutti sono intervenuti per spiegare che la perdita di Draghi sarebbe una tragedia per l’Italia e per l’Europa intera. Gentiloni si è spinto fino a dire che “una tempesta perfetta” travolgerebbe il Paese se Draghi se ne andasse; mentre il Guardian si è limitato a dare istruzioni ai parlamentari italiani affinché Draghi “rimanga per ora”. Il New York Times ha ironizzato sul fatto che la partenza di Draghi porrebbe fine al “breve periodo d’oro” che ha inaugurato per l’Italia. Si parla di ingerenza di attori stranieri negli affari dell’Italia.

Allora perché, nonostante queste forti pressioni, la settimana scorsa tre partiti hanno di fatto staccato la spina al suo governo? Parte della spiegazione risiede nella misura in cui Draghi è riuscito ad alienarsi partiti come il Movimento Cinque Stelle e la Lega, rifiutandosi di confrontarsi con loro su quasi tutte le politiche del suo governo o di riconoscere anche le critiche più timide. In più di un’occasione, Draghi ha espresso chiaramente quello che considerava il ruolo del parlamento: quello di certificare le decisioni prese dal governo.

Ciò è evidente anche nell’abuso che Draghi ha fatto dello strumento del voto di fiducia.

Nel suo discorso al Senato della scorsa settimana, Draghi è stato ancora più esplicito: dopo aver detto di aver deciso di riconsiderare le sue dimissioni perché “questo è ciò che vuole il popolo”, ha sostanzialmente detto al Parlamento che era disposto a rimanere come premier solo a patto che i partiti accettassero di non interferire con le future decisioni del governo. Per molti dei presenti in Parlamento, l’arroganza e la megalomania del discorso di Draghi hanno rappresentato un passo eccessivo – e inoltre c’è chi sostiene che Berlusconi stesse aspettando il momento giusto per vendicarsi della volta in cui fu scalzato da Draghi, nel 2011, quando quest’ultimo era presidente della BCE.

Tuttavia, non bisogna sopravvalutare l’importanza della rivolta anti-Draghi del Parlamento.

In definitiva, Draghi non ha fatto altro che dire ai partiti una scomoda verità:

“Non avete alcun potere reale, accettatelo”.

Ma questa è una verità che i partiti politici non sono pronti ad accettare. In definitiva, non sono disposti ad affrontare la contraddizione fondamentale tra l’architettura istituzionale formale del Paese – quella di una democrazia parlamentare – e quella che potremmo definire l’architettura istituzionale “realmente esistente”, in cui il Parlamento e per definizione i partiti politici non hanno quasi alcun potere, perché il governo stesso, nel contesto dell’eurozona, ha poca o nessuna autonomia economica. I partiti lo sanno ma non sono disposti ad ammetterlo (a se stessi ma soprattutto agli elettori).

Questo li lascia in uno stato di dissonanza cognitiva permanente, che porta a quello che possiamo chiamare “il ciclo politico del vincolo esterno”. Come nei Paesi “normali“, i partiti si contendono il consenso sulla base di piattaforme elettorali diverse e, come spesso accade, vincono i partiti che promettono il “cambiamento“. Tuttavia, a differenza dei Paesi “normali“, i partiti che entrano al governo scoprono presto di non avere i “normali” strumenti di politica economica necessari per cambiare davvero qualcosa in termini socio-economici.

Di fatto, hanno poca scelta se non quella di assecondare ciò che dicono Bruxelles e Francoforte, e se non stanno al gioco la BCE è sempre pronta ad alzare il tiro. A quel punto, se il governo non fa marcia indietro, la BCE architetterà una vera e propria crisi finanziaria (si pensi all’Italia nel 2011 o alla Grecia nel 2015), che di solito porta a una crisi economica e finanziaria.

Tuttavia, anche se il governo cede, la crescente tensione tra le esigenze del vincolo esterno e le richieste dei cittadini, a cui i partiti non hanno gli strumenti per porre rimedio, li porta a rivolgersi ai tecnocrati per risolvere l’impasse, facendo attuare loro le misure di cui i partiti non vogliono assumersi la responsabilità. Poi, a un certo punto, di solito con l’avvicinarsi di nuove elezioni, i partiti politici sentono il bisogno di rilegittimarsi agli occhi degli elettori e quindi rimettono il genio tecnocratico nella lampada – fino alla prossima crisi, che mette in moto un nuovo ciclo.

Questa è in gran parte la storia di ciò che è accaduto tra il 2018 e l’estromissione di Draghi, dato che il Movimento Cinque Stelle e la Lega sono passati dal populismo anti-UE a Draghi nel corso di pochi anni. Le prossime elezioni daranno il via a un nuovo ciclo, forse salutato da un governo di centro-destra guidato da Giorgia Meloni. Ma con il continuo peggioramento della situazione sociale ed economica, anche questi cicli sono destinati ad accorciarsi sempre di più. Un futuro governo di centro-destra – “populista” o meno – avrebbe poca o nessuna capacità di risolvere le crisi lasciate da Draghi. Come sempre, le decisioni saranno prese a Bruxelles e a Francoforte.

Con il lancio del recente strumento di protezione della trasmissione (Transmission Protection Instrument, TPI), la BCE si è dotata di uno strumento che tecnicamente le consente di fare “tutto il necessario” per chiudere gli spread dell’euro, evitando così potenzialmente future crisi finanziarie. Tale intervento, tuttavia, è subordinato al rispetto del quadro fiscale dell’UE e alle “riforme” delineate nei piani del “fondo di ripresa” di ciascun Paese, già bloccati da Draghi.

Ma queste non faranno nulla per porre fine alla crisi sociale ed economica in atto; anzi, sono certe di aggravarla. In altre parole, il prossimo governo italiano, se vuole rimanere finanziariamente a galla, avrà poca scelta se non quella di seguire i diktat economici dell’UE – o altrimenti…

In un simile contesto, quanto tempo ci vorrà prima che gli ultimi residui di legittimità democratica in Paesi come l’Italia vadano in frantumi? E cosa accadrà allora? In definitiva, è molto più probabile che la prossima crisi dell’euro scoppi nelle strade d’Europa che sui mercati finanziari.

Thomas Fazi

Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare

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