La Terra promessa di un conflitto senza fine

A Palestinian man runs away from tear gas during clashes with Israeli security forces in front of the Dome of the Rock Mosque at the Al Aqsa Mosque compound in Jerusalem's Old City Monday, May 10, 2021. Israeli police clashed with Palestinian protesters at a flashpoint Jerusalem holy site on Monday, the latest in a series of confrontations that is pushing the contested city to the brink of eruption. Palestinian medics said at least 180 Palestinians were hurt in the violence at the Al-Aqsa Mosque compound, including 80 who were hospitalized. (AP Photo/Mahmoud Illean)

Gli ultimi scambi missilistici fra la Striscia di Gaza e Israele dimostrano che il relativo congelamento della geopolitica a causa della pandemia può essere finalmente revocato affinché la storia riprenda il suo consueto corso di ordinaria conflittualità.
Sullo sfondo del complesso intreccio storico e politico del Medio Oriente, per gli osservatori esterni sarebbe del tutto superfluo esprimere una netta e decisa posizione pro o contro l’una o l’altra parte del conflitto, laddove le stesse dinamiche e ruoli cambiano di continuo e spesso un’azione politico-militare che nel passato avrebbe potuto essere giustificata, oggi, per altrettante valide ragioni, sarebbe indifendibile.
Le sabbie mobili, di cui la regione medio-orientale è costituita, più che di qualsiasi altra realtà geopolitica richiedono di ponderare e analizzare gli accadimenti di volta in volta, dove spesso sulla scena troviamo configurazioni inaspettate, prive di precedenti storici e di ogni anticipazione previsionale.

Detto in altre parole, il Medio Oriente è per sua intrinseca natura il luogo dell’instabilità, che meno si presta a una contrattazione diplomatica e a una coerenza analitica, perché per lo stesso temperamento e volontà degli Stati protagonisti, esso è difficilmente assoggettabile alle norme di diritto internazionale, con una maggiore probabilità di trovare le consuete dinamiche dell’ipocrisia, tipica della grande politica, secondo cui i patti solennemente promessi non corrispondono mai alle intenzioni che di nascosto vengono pianificate e messe in atto.
Descritto con l’ironia cinematografica di un vecchio film sovietico (Il bianco sole del deserto, 1970), il Medio oriente non è alla portata di tutti, perché è il luogo perfetto dove possono accoltellarti nella schiena mentre gentilmente ti servono una fresca bevanda alla sherbet.


Non è escluso che dietro gli ultimi inaspettati attacchi missilistici da parte di gruppi militari palestinesi (da intendere Hamas) contro Tel Aviv e la Città Santa ci sia la regia della Turchia, da leggere come prova di conferma del suo ruolo di primaria forza regionale. Per la Turchia ogni mossa sarebbe lecita affinché possa dimostrare la sua statura nella complessa configurazione fra Israele, Russia, Iran, Cina e la Lega Araba nella contesa dell’Asia centrale (the Heartland), in una fase dove il ruolo degli Stati Uniti è sempre più ridimensionato, mentre quello della Unione Europea è quasi inesistente. Se la Turchia degli ultimi anni è sempre più dichiaratamente ispirata dall’idea del ritorno alla sua vecchia potenza di impero, bisogna anche ricordare che la “Terra promessa” fino a un secolo fa era sotto il controllo proprio dell’Impero ottomano, dove la maggioranza arabo musulmana, che abitava pacificamente quei territori, non disponeva di alcuna forma di organizzazione istituzionale.
Man mano con la decadenza dell’Impero ottomano, il Medio Oriente viene ridisegnato dalla Gran Bretagna, che subentra per colmare la mancanza di un centro di convergenza regionale. La potenza britannica, costretta a prendere in considerazione il crescente movimento sionista (il nome nasce dall’altura di Sion, il nucleo originale della Città Santa), nel novembre 1917 si dichiara favorevole all’istituzione di uno Stato ebraico (Dichiarazione Balfour). Con il Mandato di Palestina, che il governo britannico riesce ad ottenere, viene istituita per prima la Transgiordania (oggi Giordania), il che determina un forte esodo di ebrei europei verso le terre d’origine; incaricandosi della tutela dei primi insediamenti ebraici, la Gran Bretagna rassicura al contempo gli arabi presenti, ossia i palestinesi, come spetterebbe a una vera diplomazia.

Successivamente i regimi fascista e nazista, accentuati dall’orrore dell’Olocausato, intensificano il pellegrinaggio degli ebrei in Terra Santa, visto come un salvifico approdo nella terra degli avi, ma con ciò nascono anche i primi gruppi radicali per rivendicare l’identità palestinese del territorio. Poco duraturi sono i tentativi dell’ONU di ripartire nel 1947 il territorio fra i due Stati, cercando un ragionevole compromesso, in base a cui lo Stato ebraico avrebbe coperto il 55% della zona ospitando però 400 mila palestinesi, mentre in cambio lo Stato palestinese sarebbe rimasto meno esteso ma quasi integralmente musulmano, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Quando nel 1948 gli USA e l’URSS, in qualità di vincitori della Seconda guerra mondiale, riconoscono l’indipendenza dello Stato di Israele, Israele viene sfidato con la prima guerra regionale invocata dalla Lega Araba, insofferente al sionismo che considera un’ingerenza straniera. Questo sarà solo l’inizio di altri estenuanti conflitti militari seguiti nei decenni, sorprendentemente vinti sempre dallo Stato di Israele, nonostante esso disponesse di un decimo dell’attuale potenza militare contro un’imparagonabile prevalenza numerica dei paesi arabi coinvolti. Ma se, secondo la millenaria consuetudine storica, la guerra è l’unica inderogabile fonte di diritto, in questa circostanza dovrebbe essere più che accettabile il fatto della continua espansione di Israele a discapito dei territori palestinesi. Ma d’altronde ciò non toglie il fatto che, benché le guerre possano essere placate, nulla può costringere alla riconciliazione entità sociali e politico-religiose che nutrono fra loro un profondo rancore, così come nulla avrebbe potuto cancellare il sogno degli ebrei di riavere il loro Stato antico, distrutto nel primo secolo d.C., e il desiderio dei palestinesi di riprendere il controllo delle loro terre prima dell’arrivo degli ebrei.

I successi militari e geopolitici ottenuti dallo Stato ebraico lasciano scontenti i palestinesi, motivo per cui a partire dagli anni 80 viene innescato il conclamato terrorismo islamico per mano di gruppi radicali come Hamas e Hezbollah, che vediamo tutt’oggi, e l’intransigenza di Israele a contrastarlo e a rivendicare l’incolumità della propria popolazione, vedendosi costretto a ridurre tutto il territorio in un lager paramilitare. Quello che oggi porta una parte dell’opinione pubblica a dichiararsi amica del popolo palestinese sono senz’altro le peggiori condizioni economico-sociali in cui versa la popolazione araba, in particolar modo quella dei territori controllati della Striscia di Gaza ma, dall’altra parte, il popolo di Israele ha il sostegno di una buona parte degli occidentali, che si riconoscono nella forma democratica che esso ha saputo darsi, apprezzando i suoi indiscutibili progressi scientifici e tecnologici, che si riversano in un migliore standard di vita economico e sociale, oltre che in una preminenza militare.

Israele distrugge l’edificio sede della stampa estera a Gaza

Di fronte all’impatto delle ultime scosse in Terra Santa, possiamo dire che è stato poco apprezzato e poco mantenuto dalle diplomazie occidentali lo sforzo dell’amministrazione Trump di pacificare in modo duraturo ebrei e palestinesi attraverso un patto simbolicamente chiamato l’Atto di Abraham (agosto 2020), con cui il presidente americano ha cercato inoltre di instaurare, per la prima volta nella storia, rapporti diplomatici di pace fra Israele e una buona parte dei paesi della Lega Araba, fra cui gli Emirati Arabi e Bahrain, e successivamente Marocco e Sudan; un patto astutamente in funzione anti iraniana, sulla linea dell’opposizione sunnita/sciita. Mentre Trump aveva giocato sullo strategico – per Israele – indebolimento economico e geopolitico dell’Iran, l’agenda di Biden ha puntato sulla normalizzazione dei rapporti con l’Iran attraverso il ripristino del patto bilaterale di non armamento nucleare, avendo come priorità il respingimento della Russia dalla Siria, dove la presenza militare americana non solo non sarà congedata ma probabilmente intensificata. Ma a prescindere dalle agende di politica statunitense, la pace nel Medio Oriente non dipenderà più solo dal grado di tensione fra Israele e Iran, in quanto sulla scena si fanno avanti altri giocatori, motivo per cui a Israele conviene ridimensionare l’ossessione dei programmi nucleari dell’Iran per prestare maggiore attenzione ai piani nucleari della Turchia.

Oggi la Turchia supera potenzialmente l’Iran per crescita economica e sviluppo tecnologico, essendo favorita già solo per il fatto di non aver subito alcun embargo, ‘accontentandosi’ solo del recente boicottaggio commerciale da parte dell’Arabia Saudita. Cruciale per gli equilibri del Medio Oriente è il patto di cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan, con cui ognuno dei tre paesi mira a rafforzare il proprio ruolo nella macro-regione di appartenenza. Formalmente l’accordo fra i tre viene giustificato dal dovere di contrastare le violazioni dei diritti delle comunità musulmane nei paesi di maggioranza non musulmana, come in alcune regioni dell’India (Jammu e Kashmir) e la regione autonoma cinese di Xinjiang, ma sostanzialmente è volto alla conquista di posizioni strategiche sulla asse Asia meridionale-Mar Caspio (Asia centrale)-Mediterraneo. Va specificato che il Pakistan è l’unico Stato islamico di statuto confessionale che dispone di armamenti nucleari e dei mezzi per il loro trasporto.

L’asse Turchia-Azeirbaigian-Pakistan

La triade Turchia-Azerbaigian-Pakistan costituisce un solido contrappeso anche in vista dell’accelerata collaborazione economica e militare fra la Cina e l’Iran, la quale in caso di finalizzazione porterà il dominio cinese nel Golfo Persico, percorrendo tutto il corridoio da Pechino al canale di Suez e ramificandosi verso l’Africa.
La Turchia si configura in un inevitabile conflitto con la Cina a causa delle minoranze turche (gli Uiguri) in Xingiang, che costituiscono il 46% della popolazione della regione cinese, ma questo non la rende automaticamente un alleato degli USA in un eventuale conflitto fra Washington e Pechino, perché la Turchia difende sempre e comunque solo il proprio interesse nazionale, a prescindere se in veste mondano kemalista o in veste islamico religiosa.
Questo fa sì che un giorno la Turchia possa essere un alleato degli USA per riprendersi il Nagorno-Karabakh dall’Armenia, e il giorno dopo loro avversario per posizioni contese nel est Mediterraneo o in Iraq; così come può essere in buoni rapporti con Israele nel conflitto con la Siria, ma il giorno dopo rifornire, attraverso il mar di Marmara, la striscia di Gaza con provigioni di ogni genere, armi incluse, a discapito di Israele. Ideologicamente divisa fra il pan-turchismo e il pan-islamismo, che geograficamente possono essere raffigurati dalla montagna Tien Shan e il monte Arafat, la Turchia porta avanti entrambe le dimensioni attraverso un ambizioso e inarrestabile sviluppo economico, tecnologico e militare. In una tale configurazione di forze, l’unica chance per Israele, il cui controspionaggio aveva avvertito ancora dieci anni fa il governo del pericolo turco, è quella di cercare di controbilanciare il fattore turco attraverso la contesa della leadership fra la Turchia e la Lega Araba, che corre sul filo della preminenza religiosa, dove comunque l’Arabia Saudita e l’Egitto vantano eserciti convenzionali, armamenti e pretese regionali altrettanto ambiziosi.

Benjamin Netanyahu

E se dovesse essere che, in mezzo a tutta questa prepotenza di forze esterne, la soluzione dell’eterna inquietudine di Israele dipendesse proprio dal suo interno? Per strana coincidenza, lo scoppio delle ultime violenze ha interrotto le trattative per la formazione di un nuovo governo che doveva mettere fine a un lungo stallo politico. Sembra che l’iniziativa di attacco da parte di Hamas abbia favorito la posizione di Netanyahu, il quale, oltre a rimanere in carica, riscuote in questo modo un maggiore consenso perché, per consolidata esperienza, ogni volta quando c’è un attacco esterno, le divisioni interne vengono messe da parte nel nome dell’unità nazionale, dove con ‘unità nazionale’ si intende, purtroppo, solo la componente ebraica della popolazione israeliana. Israele aspettava il suo “governo del cambiamento” ad opera dell’opposizione di sinistra, probabilmente fatto saltare perché avrebbe dovuto contare sull’appoggio parlamentare di un partito della minoranza araba – un fatto senza precedenti, anzi, con un precedente ben noto del 1995, quando l’allora primo ministro Yitzhak Rabin (Nobel per la pace) mantenne il proprio governo grazie al sostegno della componente araba, ma venne ucciso da un estremista israeliano.

Bill Clinton celebra a Washington la firma dell’accordo di pace tra Israele e i Palestinesi, con il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, a sinistra, ed il leader palestinese Yasser Arafat, a destra, il 13 Settembre 1993.

E se il terrorismo palestinese e una certa leadership israeliana fossero in simbiosi, pur dimostrando un’irreprimibile avversità? D’altronde Hamas ha sparato i propri missili non verso un unico obiettivo, ma verso punti diversi in modo da aumentare l’efficacia degli Iron Dome (il sistema anti missile israeliano), tanto è che le decine di missili lanciate da Gaza nelle ultime 24 ore hanno colpito zero obiettivi, il che però fa sì che Bibi Netanyahu rimanesse al potere, che Hamas aumentasse la propria popolarità e i rispettivi finanziamenti da reinvestire in armi, e che l’eroe della Palestina Mahmud Abbas continuasse a essere benedetto a Ramala. Il terrorismo di matrice araba, che ogni volta fa molte più vittime fra i palestinesi, alla fine è la legittimazione perfetta affinché nulla cambi, fino alla prossima escalation, sempre possibile e sempre temuta.

In tale alternanza del conflitto, che in questo modo si prospetta senza soluzione, la duratura pacificazione del Medio Oriente non potrà avvenire senza che sia portato avanti l’intervento decisivo della Russia, la quale saprà dare sostegno e visibilità a leader che riescono a garantire la convivenza pacifica fra etnie e religioni diverse, leader della statura di al-Assad, in modo che possano essere individuati e limitati le forze geopolitiche e i gruppi d’interesse transnazionali che vengono remunerati dalla separazione, dall’estremismo e dal caos seminato nella regione. In ultima istanza, gli attori principali, da cui dipenderà la scena medio-orientale, saranno la Turchia e la Russia, i quali rivestiranno gli schieramenti così delineati.

Zory Petzova

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Zory Petzova, studiosa dei paradossi sociali nella loro molteplicità e interferenza con la natura umana.

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