La montatura giudiziaria contro Trump

È questo certamente il caso di Donald Trump che ha lasciato da qualche anno a questa parte la Grande Mela per trasferirsi in Florida, stato nella quale la mano democratica è molto meno pesante e molto meno potente.

Ciò nonostante la procura distrettuale di New York è all’opera per fabbricare appunto il caso immaginario per portare in qualche modo il presidente americano alla sbarra.

E per farlo sta mettendo insieme i pezzi di una storia che fa acqua da tutte le parti. Bragg sostiene che Trump abbia pagato una pornostar, Stormy Daniels, con la quale Trump stesso avrebbe avuto un rapporto intimo in cambio del suo silenzio durante la campagna elettorale del 2016.

La domanda più ovvia che ci si può porre al riguardo è: dove diavolo sarebbe il crimine se mai questo fosse stato realmente commesso?

Bragg sostiene che il pagamento sarebbe stato fatto figurare illegalmente come una spesa legale a carico dell’ex avvocato di Trump, Michael Cohen, che avrebbe assolto alla funzione di intermediario nella transazione.

Adesso in questi giorni è emersa una lettera firmata dallo stesso Cohen anni prima nella quale il legale smentisce categoricamente che Trump gli abbia mai dato del denaro per pagare Stormy Daniels, e che anzi sarebbe stato lui a pagare quest’ultima di tasca sua.

Nel gergo legale americano questa si chiama “exculpatory evidence” ovvero quelle prove che scagionano completamente un indagato dai crimini per i quali è indagato.

E queste prove sono state omesse dal procuratore distrettuale di Soros al Gran Giurì che dovrebbe riunirsi per decidere se procedere o meno con un rinvio a giudizio.

Dunque in questa situazione è Bragg che rischia un’inchiesta a suo carico per aver omesso delle prove fondamentali che fanno crollare tutto il suo precario impianto accusatorio.

Adesso però il Gran Giurì la cui riunione era prevista per ieri è stato rinviato alla settimana successiva, forse, perché l’inchiesta del procuratore democratico si sta completamente sbriciolando. [ieri 30 Marzo – quindi dopo la stesura di questo articolo –  il Gran Giurì si è riunito e ha decretato l’incriminazione di Trump NdR]

L’arresto di Trump, se mai è esistita questa possibilità, si allontana sempre di più ed è probabile che il presidente americano sappia già come andrà a finire. L’annuncio dello scorso venerdì è servito più che altro a denunciare gli strampalati e disperati piani di un sistema che non sa più cosa fare per sbarrare la strada a Donald Trump.

Sono almeno sette anni che i vari poteri paralleli di Washington hanno fatto di tutto per rovesciare Donald Trump.

Prima hanno provato con il famigerato caso dello Spygate, o Russiagate, nel quale sono apparentemente coinvolti anche i servizi italiani e l’ex governo Renzi.

Poi successivamente risultano esserci stati almeno due attentati alla vita di Trump nell’agosto del 2020 e un altro nel gennaio 2021 mai finito sulle pagine dei media mainstream. C’è stata poi la frode elettorale del novembre 2020, la più grossa della storia, e le proteste del 6 gennaio al Campidoglio nelle quali l’FBI ebbe un ruolo decisivo.

Senza contare almeno due messe in stato di accusa (impeachment) mai accaduti nella storia dei presidenti americani.

È stata giocata ogni carta possibile ma lo stato profondo non è riuscito a togliere di mezzo Donald Trump anche per le protezioni di cui gode negli ambienti militari americani più fedeli alla nazione e non asserviti invece alla lobby del Pentagono, a sua volta legata a doppio filo ad Israele.

Adesso si sta per chiudere il cerchio di un progetto iniziato nel 2016 che prevedeva e prevede che l’America si liberi una volta per tutte dalla morsa di questi poteri transnazionali e lo stato profondo gioca la sua carta più disperata: quella del fantomatico e surreale arresto di Trump.

Khan: l’uomo che lo stato profondo vuole morto

A rischiare più di tutti la detenzione in quella che è una partita a scacchi tra l’apparato del globalismo e l’alleanza patriottica internazionale è invece certamente Imran Khan. Khan è stato primo ministro pakistano e già l’anno scorso denunciò una manovra ai suoi danni concepita da ambienti angloamericani per mettere fine al suo governo.

Khan aveva e ha uno scopo molto preciso. Portare via il Pakistan dalla zona dell’anglosfera che ha sempre saldamente controllato questo Paese per avvicinarlo alla sfera dei BRICS, laddove non esiste il principio di un impero che domina i suoi vassalli, ma piuttosto quello di nazioni libere e sovrane che rispettano reciprocamente la sovranità e l’indipendenza altrui.

Ecco perché in Pakistan si è messo in moto un meccanismo simile a quello visto negli USA con Trump. Khan ha già subito un attentato contro la sua vita dal quale si è salvato solo per miracolo. La giustizia pakistana poi, emanazione dell’euro-atlantismo, non gli sta dando tregua e ha provato a spiccare un mandato di arresto nei suoi confronti lo scorso sabato.

Presso il tribunale di Islamabad è in corso un processo dove l’ex premier pakistano è accusato di aver venduto orologi di lusso ricevuti in dono durante il suo mandato da primo ministro. Non è dato sapere quali siano le prove di tale “crimine” ma da questa traballante accusa se ne deduce che lo stato profondo internazionale ha molto poco in mano, da un punto di vista legale, per togliere di mezzo Khan e impedirgli così di partecipare alle prossime elezioni previste per l’ottobre di quest’anno.

Elezioni alle quali se Khan dovesse partecipare vincerebbe probabilmente con larghissimo consenso vista la sua enorme popolarità presso il popolo pakistano.

Ora il leader pakistano ha invitato i suoi sostenitori a non cedere ad alcuna provocazione a Zaman Park, nella città di Lahore, laddove è attesa una manifestazione a suo sostegno. Khan teme che la polizia possa infiltrare la manifestazione con alcuni agenti provocatori che poi tenteranno di uccidere altri poliziotti.

In questo modo, le autorità pakistane avrebbero il pretesto che cercano per poter accusare Khan di aver istigato le violenze e ucciderlo in una maniera simile a quella accaduta anni prima ad un altro politico pakistano scomodo, Murtaza Bhutto.

Khan sembra essere estremamente lucido e consapevole delle mosse degli avversari e sta preparando in maniera molto accorta i suoi sostenitori alle trappole che l’attuale primo ministro, Sharif, gli sta tendendo.

Non sarà affatto facile eliminarlo e il tempo per l’anglosfera in Pakistan è agli sgoccioli considerate le elezioni di ottobre.

Quanto accaduto negli ultimi sette giorni è dunque l’ennesimo capitolo della lotta che vede contrapposte queste due forze. Da un lato, coloro che tre anni gettarono il mondo nella psicosi di massa attraverso una farsa pandemica, e dall’altro, coloro che invece stanno lottando per impedire che il mondo cada preda di una morsa globale autoritaria.

Ed è la parte dei leader patriottici che sta continuando a macinare colpi su colpi mentre il campo globalista perde sempre più terreno.

Solamente questa settimana, la Russia ha gettato le basi per l’Africa post-coloniale in un incontro tra 40 leader africani e Putin sul mondo multipolare in Africa.

Mentre Putin incontrava i leader africani, riceveva anche il presidente cinese Xi Jinping con il quale gettava le basi di una cooperazione rafforzata tra Russia e Cina che sta certamente portando il mondo lontano dall’epoca dell’anglosfera e del suo impero post-1945.

Persino l’Arabia Saudita, stato creato per espressa volontà del cartello sionista, ha compreso la malaparata e ha riallacciato i rapporti con l’Iran, storico avversario della lobby israeliana, presentando già domanda di ingresso nei BRICS.

Sullo sfondo intanto prosegue la crisi delle banche sistemiche globali che sono il cuore pulsante della finanza di Wall Street e della City di Londra.

Si sta vivendo un periodo unico, probabilmente senza precedenti. Equilibri che duravano da quasi 80 anni si stanno smantellando nel giro di pochissimi mesi.

È alquanto probabile che adesso sia iniziata l’ultima fase di demolizione di tutto l’apparato globalista e dei suoi tentacoli.

E l’accelerazione definitiva si avrà con la chiusura della crisi in Ucraina che esperti militari sul posto sostengono non possa proseguire oltre la primavera o l’estate di quest’anno.

L’Ucraina nazista di Zelensky è dissanguata di uomini e mezzi e non potrà reggere a lungo una situazione già pesantissima.

Dopo la caduta di Kiev, si sarà superato il giro di boa definitivo. Quello che cambia la storia per sempre. E dopo questo giro di boa, la NATO, per come la si è conosciuta, è destinata probabilmente ad essere archiviata dalla storia.

Un cambiamento storico che non potrà non interessare l’Europa e l’Italia. Il prossimo piano dello scontro sarà proprio quello europeo. Dopo la fine della crisi ucraina, sarà l’Unione europea il prossimo bersaglio del mondo multipolare.

A quel punto, l’accerchiamento del globalismo sarà totale. Se si pensa a tre anni fa, si è tutto capovolto. Nel 2020, il mondo sembrava essere sul baratro di una dittatura globale.

Nel 2023, la prospettiva di un mondo governato da nazioni libere e sovrane è sempre più concreta. Ed è tale prospettiva che sta tormentando le notti di molti uomini dello stato profondo, soprattutto di quelli italiani che tre anni eseguivano tutti gli ordini di Davos convinti di ritrovarsi dalla parte dei vincitori e tre anni dopo si sono risvegliati scoprendo di essere dalla parte dei perdenti.

Cesare Sacchetti

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