“From Russia with love”

A woman wearing a mask to protect against the spread of coronavirus passes by graffiti depicting Russian President Vladimir Putin in Belgrade, Serbia, Wednesday, Aug. 19, 2020. Putin says that a coronavirus vaccine developed in the country has been registered for use and one of his daughters has already been inoculated. Speaking at a government meeting Tuesday, Aug. 11, 2020, Putin said that the vaccine has proven efficient during tests, offering a lasting immunity from the coronavirus. (AP Photo/Darko Vojinovic)
“Russia è la mia patria, una di quelle grandi e misteriose certezze di cui vivo.” Questa è la confessione che Rainer Maria Rilke, il maggior poeta tedesco dell’età moderna, lascia dopo la sua visita in Russia nel 1899, che fu per lui un’esperienza di vera e propria illuminazione – personale, artistica e spirituale. La grande anima russa, incomprensibile ai più, per il poeta tedesco era divenuta fonte di ispirazione e di profondo appagamento.

Si era forse chiesto Rilke, nella sua totalizzante comprensione dell’essere, cosa significa governare un popolo posseduto da questa anima – tumultuosa, confusa, espansiva, incapace di sottomettersi al controllo della logica e al rigore delle regole? Quali capacità e attitudini caratteriali dovrebbe avere uno zar, un imperatore o un capo politico per reggere il confronto con la furia sovversiva e anarchica di questa anima, con il genio debordante di artisti, inventori e scienziati che essa sforna, in una incessante ricerca di grandezza e di libertà…?

L’anima russa non è solo il personaggio principale nella narrativa russa, essa è la protagonista della storia del mondo, di leggendarie epopee belliche di memorabile gloria ed eroismo, a volte controverse, ma quasi sempre condotte con la causa giusta; guerre espansive o liberatorie, ma mai oltre i territori limitrofi. Dalla costituzione della Russia Unita sotto il primo zar Ivan il Terribile – quando la Mosca riceve la benedizione da parte del patriarca di Costantinopoli di chiamarsi la Terza Roma – fino ad oggi la Russia ha condotto quasi tutte le guerre sola contro potenti alleanze – asiatiche, baltiche, occidentali. Ha voluto difendere non solo territori, punti strategici e paesi amici, ma anche i valori del cristianesimo, per arrivare a investire, nella parentesi del Novecento, anche la difesa del comunismo (socialismo reale) ritenuto il modello socialmente più giusto e più progressivo, anche se perdente nella competizione economica con le democrazie occidentali. Pochi paesi hanno dimostrato nel corso della propria storia una tale capacità di trasformismo, alternando modelli di sviluppo diametralmente opposti, senza disgregarsi: forse è questa la prova dell’esistenza dell’anima di una nazione, quella cosa immateriale, insondabile e insopprimibile che amalgama i contrasti e sopravvive a ogni avversità storica, e che determina un unico destino.

Vladimir Vladimirovic Putin sale alla guida del Governo russo nel 1999 su nomina di Eltsin. Dopo circa un decennio dalla caduta del regime comunista, egli trova sotto le sue responsabilità una Russia disintegrata sia geograficamente che nella sua tenuta economica e sociale. Un’economia in caduta libera, che occupa il 36° posto per prodotto interno lordo, divorata da selvagge politiche liberiste, rivalità fra oligarchi e guerre di scissione etnica. Ci vuole un po’ più di un decennio per restituire dignità e civiltà al paese, riportandolo di nuovo fra i primi dieci per prodotto interno lordo, con privatizzazioni controllate, ordine democratico, leggi adeguate a difesa dell’interesse nazionale, superamento di conflitti interni e guerre etniche, con un ordinamento che garantisce tutte le libertà individuali, religiose, sociali. In un regime di repubblica semipresidenziale, Putin viene eletto sempre al primo turno con una quota maggioritaria che non scende mai al di sotto del 65% della totalità dei voti: un gradimento molto alto e persistente nel tempo, che porta la Duma russa a indire nel 2020 un Referendum costituzionale ad personam, con cui viene abolito il limite di mandati per la carica presidenziale. In questo referendum, con il voto favorevole di oltre 80 % dei votanti, viene istaurata una forma di governo che potrebbe essere definita monarchia democratica senza il diritto di successione, o autocrazia costituzionale, che permette a un unico leader, sopportato dal largo consenso, di svolgere il proprio lavoro nel compimento di un disegno unitario, coordinato e comprensivo di tutti i livelli del sistema, senza cedere a pressioni interne o ricatti esterni: un lavoro organico e visionario che lo stesso Putin, nel famoso documentario-intervista di Oliver Stone, paragona alla creazione di un’opera d’arte.

Sarebbe interessante osservare come in questo modo Putin, proveniente da una formazione para militare (negli ordini del KGB) e strettamente da regime, riesce a ricongiungere, a unire in sé passato e presente, ossia la figura del ex agente dei servizi segreti alla figura dello zar, forse non quella dello sfortunato Nicola II, ma senz’altro quella di Pietro il Grande. Fra i due statisti ci sono in comune non tanto somiglianze caratteriali, quanto quel senso di dovere e di grandezza nel governare la Russia. Pietro, “un autocrate dotato di una insaziabile volontà”, impiega tutte le sue forze per colmare il divario fra la Russia e l’Europa occidentale, promuovendo attivamente l’industria, il commercio, l’educazione e, con particolare passione, la cultura, con cui il paese incorona il suo splendore di grande potenza. Nel 1724 Pietro crea L’Accademia delle Scienze a San Pietroburgo che oggi, dislocata a Mosca e in altre città, rappresenta il più grande centro di ricerca della Federazione Russa, di statuto rigorosamente statale. Durante il regime comunista all’Accademia viene accorpato il progetto di esplorazione spaziale, mentre nel 2013 vengono aggiunte le scienze mediche e le scienze agrarie, per far sì che questa istituzione diventasse un centro unitario e multi-disciplinare di tutte le scienze sulla natura, l’uomo, lo sviluppo tecnologico e la società. Un progetto che fra qualche anno compirà il suo 300° anniversario, consolidando ancora di più quel legame luminoso e indistruttibile fra passato e presente.


Oggi Putin si trova alla guida di un’eredità culturale e umanistica di inestimabile valore, ma anche di un paese che detiene il primato di ricchezze e risorse naturali. Il territorio russo possiede circa 50% delle riserve energetiche e minerarie su scala globale, ma ciò non lo rende il paese più ricco come standard di vita. Il reddito pro-capite è cresciuto in modo significativo a partire dal 2000, ma rimane al 48° posto nella classifica mondiale (per fare un paragone, Italia occupa il 33°), perché l’economia russa vive prevalentemente (per circa 80 %) di export di materie prime, come un qualsiasi paese in via di sviluppo. Ha un’economia poco diversificata e non sufficientemente innovativa dove, nonostante la formazione di un alto numero di scienziati d’avanguardia, solo 5% dell’export è costituito da prodotti di alta tecnologia e di proprietà scientifiche. Un’incongruenza che si porta dietro l’impronta dell’inefficienza economica del regime comunista e che alla luce di oggi potrebbe essere definita come “il paradosso russo”.

Le sanzioni euro-atlantiste imposte alla Russia, a partire dal 2014, in realtà hanno generato un effetto positivo sulla sua economia, perché hanno spinto il paese a raggiungere un’autonomia interna a partire dal fabbisogno energetico per arrivare alla produzione di grano: da un paese che importava il grano, oggi la Russia è fra i più grandi esportatori di cereali, ed è al 5° posto nel mondo per ottimizzazione dei terreni fertili, sviluppando un’agricoltura senza l’impiego di Ogm. Nel contesto della pandemia, essa ha dimostrato di aver raggiunto anche l’autonomia medico farmacologica. In quella che si è mostrata una vera e propria guerra geopolitica fra vaccini, la Russia, a differenza dell’Unione Europea, è riuscita ad anticipare tutti i paesi con la produzione propria e indipendente di due prodotti vaccinali. Sia il fatto che la produzione dei vaccini sia stata finanziata e coordinata dallo stato, che la loro messa a disposizione dei cittadini in modo libero e gratuito, rappresenta un buon segnale di un avvio verso politiche di redistribuzione sostanziale e giustizia sociale.

La (pseudo)vittoria di Joe Biden alle ultime elezioni americane ha riportato all’ordine del giorno, in modo del tutto prevedibile, l’agenda geopolitica di Barak Obama. Il suo governo porterà avanti la già consolidata strategia euro-atlantista di circondare militarmente la Russia per destabilizzare la sua economia e il suo sistema interno e indebolire politicamente Putin, costringendolo in questo modo a cedere, ad abdicare dal potere. Tutto questo senza  che fra le due super potenze si arrivi a uno scontro frontale, essendo scontato che questo sarebbe fatale per entrambe le parti, nonché per una gran parte del mondo. Lo scopo è quello di sostituire Putin con un governo accondiscendente e servizievole verso l’Occidente, per poter successivamente circondare e mettere in difficoltà la Cina, definita all’unanimità dalle élite euro-atlantiste il principale opponente geopolitico del 21° secolo. Questa agenda passa attraverso tappe strategiche, alcune compiute e consolidate da tempo, come l’insediamento della Nato nei punti più strategici dei Balcani, altre invece in via di esecuzione, come il continuo aumento di presenza militare sulle soglie del Caucaso (Giorgia, Azerbaigiane), nel Baltico e in Ucraina. La strategia dei vecchi esportatori di democrazia mira astutamente a indurre e provocare scontri forti e annichilenti fra la Russia e le altre potenze regionali, come la Turchia, ma il conflitto più caldo e pressante è già in atto – quello fra la Russia e l’Ucraina, che da giorni in giorni sta sfidando ogni misura di contenimento.

Il colpo di stato in Ucraina nel 2014, conosciuto come il Majdan di Kiev, è la mossa più invadente e codarda che l’establishment euro-atlantista abbia saputo giocare contro la Russia, un colpo di stato preparato da gravissimi commistioni fra il governo di Obama, organismi non governativi europeisti e ambienti politici e finanziari ucraini. Dai mass media la Russia viene presentata come minaccia per l’Europa e la pace del mondo solo perché essa è la seconda potenza militare e possiede il più grande arsenale nucleare al mondo. In realtà la Russia è un grande ostacolo per le forze euro-atlantiste perché rappresenta un’alternativa all’imperialismo della globalizzazione, con un modello sociale cui sviluppo è fondato sull’identità nazionale e il recupero di valori tradizionali, e con una politica estera che ha sempre rispettato i trattati internazionali e i princìpi di non invasione e di non ingerenza negli affari interni dei paesi sovrani, e di lealtà e difesa militare verso i paesi amici, come è accaduto nel contesto del conflitto in Siria.

La questione di Crimea (regione autonoma) diventa cogente quando nel 2008 Ucraina presenta la domanda per l’adesione alla Nato, e in questo modo si accinge ad annullare unilateralmente l’accordo del 1991, con cui Mosca e Kiev avevano stabilito l’uso del porto di Sebastopoli a favore della flotta russa per il controllo del Mar Nero. La Crimea, che nel 1920 era entrata a far parte della Russia sovietica, viene ceduta nel 1954 dal leader sovietico Chruscev alla Repubblica socialista di Ucraina, ma la sua popolazione rimane fino ad oggi a maggioranza etnica russa (60 %). Il Referendum del 2014, che raggiunge un quorum altissimo (84,2 %), si svolge in totale rispetto della Costituzione di Ucraina e ottiene, con la quasi totalità dei voti espressi (95,32) l’ammissione della Crimea alla Repubblica Russa. Questo atto del tutto legittimo non viene riconosciuto internazionalmente dai paesi occidentali, a seguito di cui l’UE applica alla Russia delle sanzioni economiche. Nonostante ciò, nel 2016 la testata Forbes dichiara Putin l’uomo più potente del mondo, seguito da Trump. Un gesto lusinghiero o il riconoscimento informale di una leadership politica fra le più difficili e responsabili per la pace nel mondo dell’ultimo trentennio?

Molto più problematica e di difficile soluzione si preannuncia la situazione in Donbass, territorio ucraino anch’esso di maggioranza etnica russa, esposto per questo ad atroci vessazioni da parte dell’esercito ucraino, per cui sta richiedendo l’annessione alla Russia. Può l’amore per la Madre Russia e la volontà di farne organicamente parte costituire un pericolo per la stessa Russia? Sulla questione di Donbass si sta configurando in modo sempre più netto l’alleanza fra l’Ucraina e la Turchia in chiave anti russa. E’ desolante constatare come l’Ucraina sia capace di esporre al sacrificio la propria popolazione civile per agevolare l’agenda della Nato. La Turchia, oltre a far parte anch’essa della Nato, ha forti interessi in Ucraina: commercio e produzione di armi patentate, accordi di collaborazione militare, mentre con la Russia si trovano in campi opposti sia in Siria che in Nagorno-Karabakh. La Russia è di nuovo sola contro potenti alleanze. Ma può la Russia farsi impassibile e sorda alle sofferenze e ai richiami dei propri fratelli oltre confine, senza prendere militarmente la loro difesa? Mentre i contendenti dispiegano a Donbass, per aria e terra, truppe armate, il bacino del Mar Nero si rende la nuova scacchiera geopolitica, con le navi della marina militare Usa che entrano prepotentemente nelle sue acque attraverso lo stretto del Bosforo. La Russia non nasconde però di avere pronta un’arma marina nuova e sconosciuta, oltre che inintercettabile, chiamata Poseidone, e con ciò si aprono scenari mitologici, scenari spaventosi.

 

La Russia ha tutti gli strumenti necessari per opporsi al blocco euro-atlantico, sia militarmente che economicamente. Ma saranno i paesi europei i grandi perdenti di questo confronto. Sembra che il Nord-stream sia l’unico filo di cooperazione che lega ancora la Russia al vecchio continente, e che ricorda nostalgicamente quello che l’Europa avrebbe potuto essere. Nel desiderio intimo dei russi c’era la proiezione di appartenere all’Europa. In qualche modo la ‘sovranizzazione’ russa è stata un condizionamento, una reazione, più che un’idea originaria. Russia e Europa, e in particolar modo Russia e Germania, sarebbero state perfettamente complementari, se non ci fosse stato quell’imperativo di stampo anglo-sassone di non permettere mai una tale cooperazione: questa è stata la causa di quasi tutte le guerre che hanno coinvolto la Russia nell’ultimo un secolo e mezzo. Se oggi l’Europa (da intendersi la Germania di Rilke) e la Russia fossero unite, rappresenterebbero la forza economica e geopolitica più grande al mondo, un’egemonia assoluta e invalicabile, che nessun’altra forza avrebbe potuto mettere in discussione.

Ma come si prospettano le due strade – quella dell’Europa e quella della Russia, sull’ennesimo incrocio della storia, quello determinato dall’ultimo evento trasformativo, ossia la pandemia? Proprio in coerenza con la pandemia possiamo usare un modello di confronto ben esplicativo, paragonando la società, o lo Stato, a un organismo umano. Sappiamo già che quando un organismo è forte e resistente, esso supera con maggior facilità un attacco virale, mentre quando il suo sistema immunitario è debole, anche il virus più innocuo può farlo ammalare. La società russa sta uscendo dall’emergenza sanitaria senza aver applicato misure particolarmente restrittive, contando un tasso di mortalità doppiamente più basso di quello d’Italia e altri paesi europei. Ancora dalla fine dell’anno scorso i russi hanno fatto un ritorno alla vita di prima con una motivazione e vitalità perfino maggiori, mentre i paesi dell’Unione Europea arrancano ancora con misure restrittive, terrore, scontri civili e gravi problemi di sostenibilità economica.
Perché i paesi sovrani, da quelli asiatici a quelli africani, sono riusciti a superare la pandemia con molto meno forzature sociali e impiego di presidi vaccinali, con tassi di mortalità addirittura irrilevanti per una gran parte di essi?
Come se la pandemia avesse diviso il mondo in due paradigmi – quello dei paesi sovrani e meno dipendenti da entità sovranazionali, e quello dei paesi occidentali o legati al blocco occidentale, e di conseguenza assoggettati a interessi corporativi sovranazionali.

E’ vero che la Russia ha le sue difficoltà oggettive, problemi legati alla corruzione e alle diseguaglianze sociali fra le più alte al mondo, ma la soluzione di questi problemi non può costituire la premessa per la destabilizzazione del governo russo (come ha voluto essere il caso Navalnyj); la denuncia pubblica e il contrasto dei problemi interni non devono essere usati a favore del nemico geopolitico, e ancora meno devono favorire l’ascesa al potere di forze demagogiche e traditrici degli interessi nazionali, come accade in quasi tutti i paesi privi di una vera sovranità politica. Tuttavia, per mantenere alta la sovranità del proprio paese, Putin sa di dover siglare un patto fra le vertici del potere e le larghe maggioranze del popolo, lasciando probabilmente poco contenti gli oligarchi. Egli sa, come ha dichiarato al Forum di Davos, che il suo governo deve

“perseguire gli interessi pubblici che non coincidono con gli interessi delle grandi corporazioni, le quali, attraverso il monopolio, cercano di sostituirsi alle legittime istituzioni e di governare la società, di limitare o usurpare il diritto naturale della persona, decidendo come le persone devono vivere.”

Quale è la strada invece che prenderà l’Europa (da intendersi l’Unione Europea, in quanto dotata di istituzioni politiche)? Quello che possiamo dire, senza alcun rischio di sbagliare, è che l’Europa è alle porte di un nuovo modello di civiltà, diversa da quella pre-pandemica. Come sarà questa civiltà è deducibile dallo stesso discorso di Putin, quello del Forum di Davos, solo che per esclusione: l’Europa sarà tutte quelle realtà che Putin aveva escluso per il proprio paese: sarà una civiltà post democratica, dove i valori saranno sempre più nettamente decisi dalle corporazioni tecnologiche e farmacologiche, dove la politica e lo Stato saranno gradualmente svuotati dalla funzione di rappresentanza delle maggioranze per diventare meri strumenti o, nel migliore dei casi, mediatori fra i poteri sovranazionali e la popolazione, che sarà sottoposta al controllo digitale ma al contempo, paradossalmente, sarà lasciata in uno stato di fluidità economica. L’Europa come faro dello Stato di diritto non esisterà più. Lo stesso concetto di post modernità in realtà è stato solo un cliché politicamente corretto per dare un nome al lento processo di degrado di quel modello culturale che era una volta il sogno, l’aspirazione per il resto del mondo, mentre questo di ora viene ridicolizzato come un equivoco involutivo.

Socialmente i paesi europei diventeranno poco attraenti perfino per gli emigrati, perché non avranno più un’identità rispetto alla quale quest’ultimi potranno definirsi e in cui potranno essere integrati; prevarrà una società poco funzionale, frammentata e perciò appiattita verso i minimi standard della sopravvivenza. Una società dove in modo insulso si parlerà del nuovo egualitarismo e delle nuove forme di comunismo (sotto gli Stati delle Corporazioni), senza un ordinamento solido, se non gli algoritmi da cui sarà gestita, una società orizzontale senza dio e dimensione metafisica, che non sarà più capace di concepire e di esprimere il bello e il sublime.

Se Pietro il Grande aveva intrapreso un percorso di laicizzazione della cultura russa per avvicinarla a quella europea, Putin, in un compimento dialettico, ha voluto invece riportare la “fede in Dio” nella sua dimora naturale – l’anima russa, nonostante l’inquietudine e le contraddizioni della modernità. Con questa riconquista spirituale l’ultimo zar compie un altro ritorno, non solo quello di Dio, ma del genio russo che in modo più “ossessionato” aveva cercato il dio, esplorando i meandri della psiche umana, ragione per cui le sue opere sono collocate ai vertici della cultura europea, al punto più alto della sua epistemologia – Fedor Michajlovic Dostoevskij. Dostoevskij, insieme a Ivan Turgenev, è stato l’unico intellettuale russo che nella seconda metà dell’Ottocento denunciava gli errori teorici di una nuova élite europea orientata verso il socialismo. Entrambi gli scrittori descrivono una situazione e un rapporto generazionale nella società russa, che rifletteva quella europea, che oggi appare di un’attualità sconcertante: parlano di giovani nichilisti attirati dal caos e dal bisogno di corruzione, frutto di padri permissivi e tolleranti, riluttanti alla fede, che hanno reso i figli cinici, opportunisti, privi di ideali e di scrupoli, perché

“se Dio non esiste, allora tutto è lecito”.

La Russia – che attraverso il regime comunista aveva sperimentato quanto dispotica e ipocrita possa essere l’ideologia dell’uguaglianza, quel “comune denominatore che richiede piena obbedienza e completa assenza di personalità” (Turgenev) – quale società cercherà di costruire, e quale ordine e forma darà al proprio futuro? Avendo raccolto e unito tanti insegnamenti del passato, la strada non potrà che essere quella larga e di orizzonti aperti che abbinerà le forme e gli aspetti più preziosi di una poderosa esperienza storica: una società matura può essere aperta alle innovazioni senza dover destrutturare le tradizioni e le conquiste dei periodi precedenti, cercando quel virtuoso bilanciamento fra nuovo e vecchio, fra contrasti e forze antitetiche, che a volte implica anche la guerra, la risolutezza e il coraggio di difendere ad oltranza i valori e gli ideali in cui si crede.

Quella russa non potrà mai essere la società del futuro – annichilente e distopico, perché essa è la società di quel nietzscheano eterno ritorno della vita e della sua indistruttibile volontà di potenza.

Zory Petzova

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Zory Petzova, studiosa dei paradossi sociali nella loro molteplicità e interferenza con la natura umana.

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