Il popolo e la Storia

An explosion caused by a police munition is seen while supporters of U.S. President Donald Trump gather in front of the U.S. Capitol Building in Washington, U.S., January 6, 2021. REUTERS/Leah Millis/File Photo

Cosa è successo al Congresso? Il mercato della massa, di cui si cibano tutti, Repubblicani e Democratici, la distinzione (crudele) tra “popolo” e “banda”. Era tutto previsto. Basta leggere Walt Whitman ed Elias Canetti

All’inizio pareva una gita, rocambolesco assalto tra violenza e selfie. Nei video vediamo uomini in costume, un tizio a torso nudo, con le corna; molti sorridono. Alcuni sventolano bandiere, i più sventolano i cellulari. Nell’androne che porta verso il Senato alcuni sono intimiditi, sorridono storto: hanno la consapevolezza di ‘fare la Storia’, ma pare, in fondo, che siano lì, impacciati, a fare una visita guidata nel ‘cuore della democrazia americana’.

Fotografia emblematica: un tizio entra nell’ufficio di Nancy Pelosi, presidente della Camera, ride, mette il piede sinistro sulla scrivania. Ha il cellulare in mano. Il Congresso degli Stati Uniti, come si sa, è a Washington DC, al Campidoglio (Capitol): il legame con la tradizione ‘romana’ – insieme repubblicana e imperiale – è un fato, un segno. Nel Congresso il potere politico si fonde con quello religioso, il Tempio di Giove Capitolino con la massima istituzione di Roma. Sfondare il Congresso e invaderlo è sfidare la sacralità del potere democratico americano: come se assalissimo il Vaticano, rovesciandone la statuaria. Il Congresso è lì, sferico, immane placenta politica: entrarvi, in assetto da gita più che da assalto, significa rinascere, ambire al nuovo parto. Le gerarchie sono scisse, la fede – perché parecchi milioni di uomini dovrebbero obbedire a un manipolo di pochi? –, che si regge su una idea, su una sacralità, è trafugata, trafitta.

In termini assoluti, la Storia si fa per irruzione: chi sta comodamente assiso nel dibattito politico accarezza la Storia, la contempla. Nessuna sommossa è stata vista, fotografata, raccontata come quella accaduta il giorno dell’Epifania al Congresso degli Stati Uniti: eppure, pur in tale prossimità mediatica c’è una tale distanza dalla comprensione dei fatti. Mob Incited by Trump Storms Capitol, titola il “NYTimes”, snocciolando una infinita serie di dichiarazioni di senatori, governatori, politici. Democracy under siege urla il “Daily Telegraph”. Più interessante il “Daily Express”, di taglio conservatore: Anarchy in the Usa. Il paradosso è esplicito: il Paese che ‘esporta la democrazia’ in ogni angolo del globo ha una democrazia – rivelazione nel giorno della Rivelazione – tarlata, fragilissima, fallita.


Già, ma cosa significa democrazia? Che esiste un popolo democratico e una banda, una massa, una plebaglia di rivoltosi? Non sono anche loro parte del glorioso, glorificato popolo americano? Lo sono, per certi versi, all’eccesso, per eccesso di eccitazione. Ma chi risponde, ora, di quei morti, quattro – per ciò che ne sappiamo, ora – a Capitol Hill? Quali sono i loro nomi, le loro vite, taciute, forse, per non essere santificate nell’agiografia sanguinaria della ribellione civile? Ashli Babbit, la donna ammazzata dalla polizia in Campidoglio, durante i tumulti, viveva nei pressi di San Diego, ha prestato servizio nell’Air Force per quattordici anni, nelle fotografie divulgate in rete sorride, è bella, fa il segno della vittoria.

Epifania in Campidoglio, tra bandiere e cellulati (Getty Images)

Non c’è bisogno di squadernare libri ‘maledetti’ come The Turner Diaries di William Luther Pierce, alias Andrew Macdonald, “la bibbia del razzismo di destra e della sua rivolta” (era il 1978, è edito in Italia da Bietti come La Seconda Guerra Civile Americana): quanto accaduto in Campidoglio, nella sua eccezionalità, è inscritto nella storia americana. Ed era prevedibile. Pochi giorni fa Daniel Mallock, uno storico – nel 2016 ha pubblicato Agony and Eloquence, uno studio che si focalizza su John Adams e Thomas Jefferson – ha scritto, dalla “New English Review”, un articolo tonante fin dal titolo, An American Coup. Alcuni passi sono utili: “Studiosi rispettabili, nel nostro paese e nel resto del mondo, stanno cercando di dare un senso a ciò che accade negli Stati Uniti. Questo è molto difficile perché il 98% della stampa americana è fuorviante, incline a confondere e a ostacolare, se non a mentire. Setacciare la verità in mezzo alla propaganda riversata sul pubblico ogni giorno non è facile. Negli Stati Uniti è in corso un colpo di stato. Il presidente Donald Trump ha vinto le elezioni in maniera schiacciante, proprio come afferma”. Mallock procede nella sua analisi – “Il processo di tabulazione e comunicazione dei voti la notte delle elezioni era del tutto impreciso”; “Chi sapeva, prima di queste elezioni, che così tante persone nate il primo gennaio del 1900 votano per i democratici?”: immagine, questa, che rimanda alle Anime morte di Gogol’, al mercimonio delle identità defunte –, profila alcuni momenti della storia elettorale americana, scaglia accuse contro il sistema corrotto della stampa americana. Parole tendenziose, stravolte, stralunate? Può darsi. Sarebbe un errore, però – come è stato fatto – non considerarle, denigrarle.

C’è poi qualcosa di connesso all’anima americana, di inestricabile, più profondo di ogni analisi di Alexis de Tocqueville. La sovranità dell’individuo che sovrasta il giogo istituzionale. Walt Whitman, il cantore della democrazia americana, si scaglia contro i presidenti dem, James Buchanan, Millard Fillmore, Franklin Pierce, stigmatizzandone la corruzione e la pochezza, “uomini deformi, mediocri, piagnucolosi, inaffidabili, dal cuore falso”, li dice, incapaci di adempiere le promesse elettorali. Nel 1860, il poeta si rivolge in versi al Presidente, “Dici che dall’America penzolano illusioni/ non hai imparato nulla dalla natura della politica/ non conosci ampiezza, rettitudine, imparzialità”. Di Pierce – quattordicesimo presidente americano, che sistemò economicamente Nathaniel Hawthorne – il poeta aveva una idea pessima: “Mangia escrementi tutto il giorno e gli piacciono così tanto da volerli imporre con forza agli stati e ai cittadini”. Nel 1955 William Faulkner, già nobilitato dal Nobel, scrive un corrosivo saggio, On Privacy, in cui ragiona sui rapporti, corrosi fino alla lotta, tra individuo privato e ingerenza pubblica:

Il punto è che oggi in America qualsiasi gruppo o organizzazione, per il semplice fatto di operare sotto la copertura di una espressione come libertà di stampa o sicurezza nazionale o lega anti-sovversione, può postulare a proprio favore la completa immunità riguardo alla violazione dell’individualità. La privacy individuale senza la quale l’individuo non può più essere tale e senza la quale individualità egli non è più nulla che valga la pena essere o continuare a essere… Chi è abbastanza individuo da esigerla [la privacy] anche soltanto per cambiarsi la camicia o fare il bagno, verrà bollato da un’unica, universale voce americana come sovversivo del sistema di vita americano e della bandiera americana.

William Faulkner

Ma questi sono dati colti, intellettuali, aurei, che aiutano, semmai, a capire la turbolenza civile connaturata in terra americana. Il fatto profondo, al netto delle esasperazioni – di radical chic, di politicamente corretto, di canoni stravolti e di tradizioni impagliate e defunte si parla da almeno cinquant’anni, come con imbarazzante ricorrenza si parla delle ‘tante’ americhe, inconciliabili e autistiche – si chiama mass market. No. Non il mercato ‘di massa’. Il mercato delle masse. A chi fa comodo, in effetti, la sgargiante massa di insorti che con clamorosa facilità ha fatto ingresso al Congress? Quella massa – irrisoria rispetto al popolo americano ma pur sempre una sua rappresentanza – ha il marchio isbn addosso. Ha un prezzo. Donald Trump la userà – la ha usata –, quella massa, per i suoi scopi; i Repubblicani per i propri; Joe Biden & i suoi per i loro. La massa è plastica, informe, senza nome. Utile. La massa serve ai fini democratici – è massa elettorale – ma è serva di chi domina per scopi che la portano al massacro. La massa diventa popolo quando si coalizza intorno a un morto, quando acquista una identità diversa da chi pretende di guidarla. Chi guida la massa, in effetti, ne è terrorizzato: al potere di incendiare una massa deve bilanciarsi quello di saperla sedare e sciogliere – per non esserne travolto. L’ideologia felice del popolo promossa da Tolstoj in Guerra e pace qui non ha ambito: la massa fa paura, è rigurgito d’ira, coagulo di occhi, denti, mani, rissa che si autoalimenta, desiderio di morte, “volgo disperso che non ha nome”, come scrive Tacito nelle Historiae.

Tutto era previsto, prevedibile, assassino.

La massa aizzata si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota, precisamente designata, e vicina… La massa aizzata è antichissima; essa risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli uomini… La massa aizzata che ha avuto la sua vittima si disgrega in modo particolarmente rapido. I potenti minacciati sono ben coscienti di questo fatto. Per fermare la crescita della massa, essi le gettano una vittima. Molte esecuzioni politiche sono state ordinate solo per tale scopo.

Elias Canetti

Massa e potere è il libro fondamentale di questo tempo, scritto da un genio, Elias Canetti, negletto, forse, per troppa lungimiranza. Nel caso specifico, la massa aizzata negli Usa è vittima di se stessa, si è involuta divorandosi. Di essa già stanno facendo pasto i paladini dell’ordine pubblico, i politici di buon senso, di qualsiasi fazione. D’altronde, hanno denti addestrati.

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