La narrazione minorante…

Controllo Social Eobey

La narrazione minorante…(su alcuni aspetti della pandemia da SARS-CoV-2 a partire da testi e dichiarazioni ufficiali, in particolare sull’attendibilità dei c.d. tamponi)

Purtroppo, i morti ci sono stati.

Un incremento anomalo rispetto alla media degli ultimi 5 anni, sulla base dei dati Istat, verificabili con una semplice ricerca on line.

Difficile contestare la narrazione dominante.

Che siano tutti per Covid 19 è opinabile (dipende da una serie di variabili legate all’accertamento della causa di morte:  p.es. la polmonite interstiziale bilaterale può anche avere, a parità di sintomi, una causa non virale…), ma alla fine conta poco.

Con buona pace di chi, giustamente infastidito dalle modalità della narrazione dominante, arriva, sbagliando, a negare le evidenze più dolorose.

Altri aspetti sono invece sottaciuti o accantonati.

Un dato relativo ai morti che viene omesso, nella narrazione dominante, riguarda l’età e le patologie pregresse: sulla base dei dati Istat, la letalità riguarda principalmente persone anziane e/o con una o più malattie in essere, vicine quindi al loro limite fisiologico e statistico di aspettativa di vita.

Ne dovrebbe conseguire che l’accento precauzionale andrebbe posto sulla prevenzione generale degli stati patologici cronici, quali condizioni predisponenti all’esito infausto (assunto l’invecchiamento come dato di fatto purtroppo inarrestabile).

Ma parliamo di utopie, cioè di alimentazione corretta, salubrità degli ambienti domestici e di lavoro, contenimento degli inquinanti di aria acqua e suolo, creazioni di condizioni sociali limitanti lo stress psicofisico, incentivazione dell’attività motoria, ecc.

Il concetto di caso, che costituisce il leit motiv dell’informazione quotidiana della narrazione dominante, secondo la definizione dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità), sulla base della Circolare 6360 del 27/02/2020 del Ministero della Salute e successive modifiche e integrazioni, comprende anche chi malato non è, cioè non presenta sintomi o è paucisintomatico: la maggioranza dei casi rilevati. E’ necessaria e sufficiente la positività al c.d. tampone, indipendentemente dai segni e dai sintomi clinici.

Quindi, parlare di «casi» permette una grande enfasi quantitativa sull’incidenza del fenomeno.

La differenza tra «caso» e «malato» (figure generalmente coincidenti nella statistica medica e nella diagnostica clinica…) è rilevante, oltre che sotto l’aspetto numerico, anche dal punto di vista di una possibile contagiosità dei soggetti «non malati», ma costituenti «caso»: sono contagiosi oppure no? 

Nella seconda ipotesi, la costruzione sicuritaria intorno all’infezione da SARS-CoV-2, il c.d. lockdown  e tutte le misure di distanziamento fisico entrerebbero in crisi.

La narrazione dominante lo esclude nella maniera più assoluta, forte per esempio dello studio su Vò Euganeo, in Italia, a marzo/aprile 2020 (cfr.: Suppression of COVID-19 outbreak in the municipality of Vo’, Italy,  E. Lavezzo et al. 18 April 2020). 

Tuttavia,  Maria Van Kerkhove, capo del gruppo tecnico dell’OMS, l’8 giugno 2020 dichiarò che in allora non sussistevano evidenze a conferma dell’ipotesi della trasmissibilità del virus da parte degli asintomatici…  salvo poi ritrattare il giorno successivo.

Al momento, la posizione ufficiale dell’OMS (Mask use in the context of covid19 – interim guidance 1 december 2020), è comunque molto vicina all’affermazione forse un po’ troppo tranchant della sua portavoce.

“Studies suggest that asymptomatically infected individuals are less likely to transmit the virus than those who develop symptoms . A systematic review concluded that

individuals who are asymptomatic are responsible for transmitting fewer infections than symptomatic and pre-symptomatic cases. One meta-analysis estimated that there is a 42% lower relative risk of asymptomatic transmission compared to symptomatic transmission (Gli studi suggeriscono che gli asintomatici hanno meno probabilità di trasmettere il virus rispetto a coloro che sviluppano sintomi. Una revisione sistematica è giunta alla conclusione che gli asintomatici sono responsabili di trasmettere meno infezioni che i sintomatici e i presintomatici. Una meta-analisi ha calcolato che c’è un 42% di rischio relativo in meno per la trasmissione asintomatica  rispetto a quella sintomatica) (Qiu X, Nergiz I, Maraolo A, Bogoch, Low N, Cevik M. Defining the role of asymptomatic SARS-CoV-2 transmission: a living systematic review. MedRxiv.2020 doi: 10.1101/2020.09.01.20135194.)

Il dubbio quindi permane e, chiaramente, nel dubbio, misure di attenzione sono sempre necessarie e opportune, in nome del principio di precauzione (quello stesso principio che la narrazione dominante ritiene eccessivo di fronte ai rischi per la salute pubblica derivanti da inquinanti chimici, elettromagnetici e simili…), tuttavia la demonizzazione e la messa all’angolo di presunti portatori sani (in specie giovani) andrebbe evitata come pericolosa deriva irrazionale, frutto più di una paura indotta che di una acclarata probabilità di contagio.

Anche perché, nel frattempo, su una questione così cruciale, la narrazione dominante ha omesso di aggiornarci su un imponente studio cinese pubblicato in Novembre 2020, che, su un campione di oltre 10 milioni di persone, dopo avere isolato  e posto sotto osservazione continuativa 330 positivi asintomatici e tracciato i loro oltre 1700 contatti, ha riscontrato zero contagi (Post-lockdown SARS-CoV-2 nucleic acid screening in nearly ten million residents of Wuhan, China Shiyi Cao et al, 20 November 2020). 

Rimanendo in  attesa fiduciosa della presa in considerazione ufficiale dello studio e della sua eventuale  peer review , continuiamo a dubitare, ma con un po’ di speranza in più , forti anche di quanto emerge sulla attendibilità dei tamponi su persone a bassa carica virale dai documenti ufficiali, di cui scriviamo più avanti. 

Nella narrazione dominante, a fianco ai casi vengono sempre posti i tamponi, definiti entrambi in termini numerici, pur risultando palese che i  tamponi effettuati non corrispondano ad un ugual numero di persone testate, essendo ovvio che molti soggetti sono sottoposti a screenings multipli e ripetuti nel tempo. 

L’accento posto dalla narrazione dominante sul numero dei tamponi vuole veicolare il messaggio di un massivo controllo sanitario della collettività, i cui numeri reali sono oggettivamente inferiori all’apparenza.

Difficile non rilevare in siffatta modalità comunicativa la volontà dell’autorità sanitaria di sottolineare la propria presenza capillare e diffusa sul territorio, contrastando critiche su inefficienze ritardi e omissioni pregressi (o forse ancora in essere).

La narrazione dominante parla di tamponi come se fossero oggetti conosciuti dalla maggioranza della popolazione, facenti parte del vivere quotidiano.

La narrazione dominante omette di spiegare che cosa siano e come funzionino, suggerendo l’equiparazione inconscia a un termometro per la febbre, a un rilevatore di pressione sanguigna e simili.

L’assunto di base è, comunque, che siano dispensatori di verità assolute, in quanto ammantati dell’alone di scientificità.

Le sottocategorie tampone rapido e test sierologico anticorpale sono del pari entrate a far parte della lingua della narrazione dominante, ma senza le opportune e fondamentali distinzioni tecniche (che qui non affrontiamo nel dettaglio).

La lettura dei documenti ufficiali dell’OMS e dell’ISS ci fornisce spunti di riflessione, oserei dire di verità, sulle omissioni esplicative messe in atto dalla narrazione dominante.

Il 20 gennaio 2021 l’OMS  ha pubblicato un’informativa per i soggetti praticanti la diagnostica in vitro (IVD) attraverso tecnologie NAT (nucleic acid testing) con utilizzo della polymerase chain reaction (PCR) per la scoperta del SARS-CoV-2, la quale sostituisce una precedente nota del 14 dicembre 2020, dal contenuto analogo ma dalla forma espositiva più «compromettente» (sic).

L’OMS invita i laboratori di analisi a leggere accuratamente le istruzioni del kit in uso per stabilire se una regolazione manuale della soglia di positività è raccomandata dal produttore. Con il che è implicita l’ammissione di una possibilità di arbitrio pratico all’interno delle asettiche stanze dei laboratori di analisi, ben lontano dall’oggettività fin qui falsamente presunta come connaturata al test. Il test PCR (o tampone) usa infatti la metodica RT o reverse transcription, che prevede dei cicli di replicazione del materiale genico preso in esame, in numero potenzialmente variabile. Il tampone non fornisce una risposta binaria (positivo/negativo) immediata, ma richiede una «lavorazione» del substrato, anche se tutto ciò avviene in real time, cioè, in misurazione diretta, durante lo svolgimento del processo, grazie a dei markers fluorescenti (la qual procedura può avere oltretutto degli inconvenienti  dovuti a eventuali depositi di materiale fluorescente o a delle limitazioni intrinseche in relazione al grado di trasparenza dei contenitori usati).

Come è intuitivo, lo stabilire il «quanto»  di detta lavorazione può comportare differenze di esito sostanziali, cioè spostare le persone da negative a positive, semplicemente aumentando i cicli di replicazione del materiale genico. La transcriptasi inversa consente, infatti, all’aumentare del numero di replicazioni, di trasformare il poco in molto, rendendo osservabile materiale genico che può essere presente solo in frammenti e/o disperso. Un eccesso di moltiplicazione del materiale comporta il rischio inevitabile di trasformare l’insignificante nel macroscopicamente rilevante. Occorre quindi fermarsi al momento giusto.

Ma quale è questo momento?

L’OMS, dopo avere ricordato come nelle sue linee guida stabilisca la necessaria attenta valutazione dei casi di debole positività, afferma:

The cycle threshold (Ct) needed to detect virus is inversely proportional to the patient’s viral load. Where test results do not correspond with the clinical presentation, a new specimen should be taken and retested using the same or different NAT technology (la soglia del ciclo (Ct) necessaria per  scoprire il virus è inversamente proporzionale alla carica virale del paziente. Laddove il test risulti non corrispondere al quadro clinico, un nuovo campione dovrà essere prelevato e ritestato usando la stessa o differente  tecnologia NAT).

Il 14 dicembre l’OMS era stata più esplicita, chiarendo che l’arbitrarietà è implicita nel sistema di rilevazione, in quanto molti cicli sono richiesti per trovare il virus, con la conseguenza che «in alcune circostanze, la distinzione tra rumore di fondo e presenza attuale del virus target è difficile da sceverare».

Nonostante la subentrata cautela terminologica, resta immutata la sostanza: con carica virale bassa o quasi nulla sono necessari molti cicli di replicazione per trovare il virus. A quel punto, l’affidabilità del test scema e subentra la imprescindibile valutazione del quadro clinico e la ripetizione del test per diagnosticare la presenza o meno della malattia.

Detto in altri termini, il tampone oltre una certa soglia è fallace; tanto è vero che l’OMS, in calce alla stessa nota, raccomanda agli operatori IVD di comunicare sempre il numero dei cicli di replicazione (Ct) nel report di analisi.

Di tutto ciò, ovviamente, la narrazione dominante tace, così come tacciono la maggior parte  dei report di analisi in merito al numero dei cicli di replicazione (CT) utilizzati per dispensare le loro oracolari verità in merito al destino delle persone.

Basta infatti una elementare ricerca in rete (p. es. Correlation Between 3790 Quantitative Polymerase Chain Reaction–Positives Samples and Positive Cell Cultures, Including 1941 Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 Isolates di R. Jaafar et al, 28 September 2020;  Predicting Infectious Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 From Diagnostic Samples  di  Bullard et al, 22 May 2020) per scoprire che, oltre i 25/30, secondo alcuni, oltre i 30/35 cicli di replicazione, secondo altri, vi è una certa concordanza nel ritenere i tamponi inaffidabili dal punto di vista della diagnosi individuale e del controllo epidemiologico di massa (così come dichiarato dai giudici di un tribunale portoghese, Margarida Ramos De Almeida, Habeas Corpus, 1783/20.7TPDL.L1-3, Lisbona, 11Novembre 2020, che proprio quegli studi hanno preso a base della loro decisione sulla libertà personale di soggetti risultati positivi al test).

Neppure viene raccontato che l’inventore della metodica, Kary B. Mullis, premio Nobel per la chimica 1993, morto, purtroppo, prima dell’inizio della pandemia, escluse, in diverse interviste, facilmente ascoltabili in rete, la utilizzabilità del suo metodo per definire lo stato di salute di una persona.

Nella stessa nota presa in esame, l’OMS affronta una questione, di cui la narrazione dominante si è ben guardata di definire anche solo i contorni concettuali generali, vale a dire «la prevalenza»: termine sorprendentemente nuovo per chi non sia avvezzo alle categorie della statistica in campo epidemiologico, che descrive la percentuale di popolazione affetta da una certa patologia, quindi non i «casi», ma i malati veri, sul totale degli abitanti. Ebbene, in Italia, tale percentuale, ognuno la può calcolare sulla base dei dati ufficiali, è su numeri di poco superiori allo zero, quindi molto bassa (può essere 0,5 o 2 %, poco cambia). Ne consegue che, come universalmente riconosciuto, indici di bassa prevalenza minano alla base l’affidabilità dei test.

Infatti l’OMS non può esimersi dallo scrivere: 

WHO reminds IVD users that disease prevalence alters the predictive value of test results; as disease prevalence decreases, the risk of false positive increases (2). This means that the probability that a person who has a positive result (SARS-CoV-2 detected) is truly infected with SARS-CoV-2 decreases as prevalence decreases, irrespective of the claimed specificity. (L’OMS ricorda agli operatori IVD che la prevalenza della malattia altera il valore predittivo dei risultati del test;  al decrescere della prevalenza della malattia, il rischio dei falsi positivi cresce. Questo significa che la probabilità che una persona che ha un risultato positivo (SARS-CoV-2 accertato) sia davvero infetta con SARS-CoV-2 decresce al decrescere della prevalenza, a prescindere dalla asserita specificità).

Laddove la parola «specificità» fa riferimento a una caratteristica peculiare dei test diagnostici, cioè quella di escludere il maggior numero possibile di falsi negativi (concetto simmetrico alla «sensibilità», che è l’attitudine a individuare solo i veri positivi).

L’OMS ricorda, dunque, quello che è lo stato dell’arte attuale in campo epidemiologico, demolendo, in situazioni, quale quella in essere in Italia, la mistica assolutistica  attribuita all’efficacia dei tamponi, su cui la narrazione dominante ha imperniato il suo racconto terrorizzante, riportandoli alla loro vera ragion d’essere, vale a dire la subalternità rispetto alla diagnostica clinica. 

Most PCR assays are indicated as an aid for diagnosis, therefore, health care providers must consider any result in combination with timing of sampling, specimen type, assay specifics, clinical observations, patient history, confirmed status of any contacts, and epidemiological information (La maggior parte dei test PCR sono indicati come un aiuto per la diagnosi, perciò gli operatori sanitari devono considerare qualsiasi risultato in combinazione con la tempistica di prelievo, il tipo di campione, le specifiche del test, le osservazioni cliniche, la storia del paziente, le condizioni confermate di ogni contatto e l’informazione epidemiologica).

Anche l’ISS si è pronunciato sulla materia, né avrebbe potuto essere altrimenti, asserendo sostanzialmente le stesse cose, ma con alcune specifiche e aggiunte interessanti (e, per certi versi, sorprendenti), a cui la narrazione dominante non ha fatto neppure un vago accenno.

Nel documento Dispositivi diagnostici in vitro per COVID-19, evoluzione del mercato e informazioni per gli stakeholder, articolato in due parti, a maggio 2020, l’ISS,  ci rivela che  la Direttiva 98/79/CE, recepita in Italia attraverso il D.L.vo 332/2000, disciplinante le modalità autorizzative relative agli strumenti diagnostici non è al momento applicabile nella sua parte più stringente a tutto ciò che afferisce SARS-CoV-2, in quanto, ovviamente, tale virus non era previsto nell’elenco allegato alla direttiva venti anni fa. In pratica, la commerciazzione del prodotto è subordinata a una semplice autocertificazione  dei produttori e a un certificato  tecnico, da notificarsi all’autorità sanitaria nazionale competente.  

E tutto ciò, nonostante che da maggio 2017 sia formalmente in vigore il nuovo Regolamento UE 2017/746 per gli IVD, il quale prevederebbe controlli più stringenti sui dispositivi ed in particolare su quelli per cui è stimato un alto rischio individuale e per la salute pubblica, come nel caso degli IVD per COVID-19. Senonché, mancando la  designazione dei laboratori europei di riferimento per i test sui lotti e l’individuazione degli organismi notificati autorizzati per le procedure di valutazione di conformità previste, nonché l’elaborazione di linee guida per la concreta applicazione, la sua entrata in vigore è rimandata al 26/05/2022, mantenendo transitoriamente in vita le previsioni abrogate della precedente direttiva.

Traduzione: carta bianca ai produttori, con buona pace della standardizzazione necessaria per un test così importante.

Come hanno operato, quindi, le società e gli istituti che hanno elaborato le metodiche RT-PCR, che sono alla base dei tamponi?

La narrazione dominante non ce lo dice, trattasi anzi, di materia riservata.

Eppure l’ISS, giustamente rileva, sempre nello stesso documento citato,  che  un importante aspetto da considerare, relativamente alle validazioni condotte per determinare le prestazioni dei dispositivi per COVID-19, è la limitata disponibilità di campioni clinici relativi alle differenti categorie di pazienti, la mancanza di metodi standardizzati, di materiali di riferimento certificati, di pannelli di sieroconversione, che rendono difficile la comparazione delle performance tra i differenti dispositivi che rilevano lo stesso analita; bisogna anche tener conto che non è ancora disponibile una “robusta” letteratura scientifica in merito a SARS-CoV-2.” E ancora: “Un ulteriore aspetto che il fabbricante dovrebbe tenere in considerazione, ad esempio per i test NAT, è lo stato di aggiornamento delle banche dati relative alle sequenze di SARS-CoV-2 che il dispositivo identifica per l’amplificazione: il virus infatti può mutare e nuove sequenze nucleotidiche depositate nelle banche dati possono rivelare se queste mutazioni possano a loro volta rendere un particolare test meno efficace o addirittura inefficace. È quindi importante monitorare le mutazioni del virus, anche studiando le sequenze dei campioni che hanno dato risultati falsi negativi con il proprio dispositivo o con dispositivi che amplificano la stessa sequenza bersaglio.”

Di fronte a un virus che muta, per ammissione dello stesso ISS, quale frammento di sequenza genica viene usata? Chi ne garantisce l’attendibilità? Sulla base di quali studi avviene la scelta?  Le domande valgono per il tampone, ma anche per il test rapido e il test sierologico, dove il materiale genico serve da stimolo  per la reazione anticorpale di risposta all’infezione.

Nel silenzio della narrazione dominante, la ricerca sul web apre infinite possibilità e scopre nuovi scenari.

Si scopre, per esempio,  che lo studio di Corman e Drosten, sulla cui base sono stati elaborati la maggior parte, pare, dei tamponi europei in circolazione attualmente, oltre a far riferimento alla sequenza genica originariamente individuata a Wuhan in gennaio 2020, sulla base di una semplice ricostruzione simulata al computer (senza quindi materiale in vitro), non ha superato la revisione peer to peer di cui è stata fatta oggetto nel novembre 2020 (cormandrostenreview.com).

E, quindi, su cosa si sono basati i nostri tamponi fino ad ora? 

Quanti laboratori o produttori fanno riferimento al materiale genico in provetta acquistabile per 20 euro a fini di standard diagnostico presso il Joint Research Centre della Commissione Europea (https://crm.jrc.ec.europa.eu/p/EURM-019) e indicato dall’ISS nello studio mcitato sopra?

C’è un dibattito in corso, nell’ambito scientifico, sulla specificità o meno del materiale genico utilizzato per le diagnosi in vitro (addirittura in alcuni casi sulla sua attendibilità), di cui la narrazione dominante non dà conto, purtroppo.

La narrazione dominante si concentra su aspetti simbolici, evocativi, volti a rafforzare la percezione di un rischio sovrastimato, a stimolare comportamenti irrazionali, a nullificare dubbi e interrogativi, a proclamare dogmi infondati, a crocifiggere eretici rei di lesa maestà…

La narrazione dominante avalla l’uso indiscriminato delle mascherina, quasi come uno scudo da frapporre tra noi e gli altri, laddove la stessa OMS,  nell’ultima guida provvisoria in materia (mask use in the context of covid19 – interim guidance 1 december 2020) ricorda che:  “(…)  A mask alone, even when it is used correctly, is insufficient to provide adequate protection or source control. (…)” (La mascherina da sola, anche qualora usata correttamente, è insufficiente a fornire un’adeguata protezione o un controllo sulla propagazione.). Oltre a raccomandarne l’uso all’aperto solo quando la distanza minima di un metro non possa essere rispettatata (…outdoor settings where physical distancing of at least 1 metre cannot be maintained…)  e a sconsigliarne assolutamente l’uso durante l’esercizio fisico, perché  “(…) The most important preventive measure is to maintain physical distancing of at least 1 meter and ensure good ventilation  when exercising (…)” (La misura preventiva più importante è mantenere la distanza fisica di almeno 1 metro e assicurare una buona ventilazione durante l’esercizio).

La narrazione dominante…

Ogni tanto, diamo ascolto anche alla narrazione minorante… (usiamo la nostra testa!)

Un narratore minorante

Gennaio 2021

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