L’inaspettato che ci aspetta

Quarto Stato

A chi è nato in Occidente durante la guerra fredda il comunismo ha offerto un qualche beneficio… nel senso che, PER LA PAURA DEL COMUNISMO, gli sono stati concessi dal Capitale diritti e privilegi economici che, una volta crollato il muro di Berlino, non avevano più ragione d’essere… E, infatti, sono stati gradualmente revocati.
Per chi nasce ricco la povertà è più amara.

Premessa

L’economia governa le nostre vite, ma le sue regole ci risultano oscure.
Eventi economici decisivi per il nostro presente e il nostro futuro si palesano inattesi ai nostri occhi di «non specialisti» della materia.
E, impreparati, ne affrontiamo le conseguenze.
Abbiamo diritto, per quel che valgono ancora i diritti, di sapere.
E provare a capire.

Concetti chiave:

a) la supremazia militare degli USA impone il dollaro come moneta forte al resto del mondo;
b) gli USA possono «stampare» moneta a proprio piacimento per finanziarsi;
c) il mercato USA rappresenta il consumatore di ultima istanza della produzione mondiale;
d) l’inflazione è un limite alla circolazione della moneta;
e) la moneta è per lo più scritturale, cioè sganciata dal supporto fisico cartaceo o metallico;
f) la moneta scritturale è creata dall’intermediazione bancaria digitalmente;
g) la ricchezza consiste in massima parte di titoli di credito;
h) l’inflazione svaluta i crediti e consente risparmi ai debitori;
k) il controllo dell’inflazione tutela soprattutto la ricchezza dei detentori di titoli;
i) il controllo dell’inflazione limita la crescita della domanda di beni;
j) la contrazione della domanda di beni determina disoccupazione e calo dei salari;
l) disoccupazione e calo dei salari impediscono la redistribuzione dei redditi;
m) mantenere per sé i profitti è l’obiettivo primario del capitale;
n) l’indebitamento di cittadini e stati crea nuovi titoli di credito;
o) l’economia reale è dipendente dalla spinta all’indebitamento dei consumatori;
p) la contrazione dei redditi da lavoro rende inevitabili i fallimenti dei debitori/consumatori;
q) ogni episodio significativo di fallimento singolo o multiplo determina una crisi;
r) le crisi servono al capitale per sottrarre sempre più ricchezza a cittadini e stati;
s) l’aumento degli impoveriti fa crescere le necessità difensive del capitale;
t) gli stati svolgono funzioni di polizia funzionali al mantenimento degli assetti;
u) le banche centrali sono privatizzate e sganciate dalla politica;
v) i parlamenti sono privati di potere circa le decisioni di bilancio;
w) il capitale esercita un controllo globale attraverso le reti informatiche;
x) il limite strutturale dell’accumulazione capitalistica è dato dai limiti fisici del pianeta;
y) le differenze tra mercati sono necessarie per l’appropriazione della ricchezza dei popoli;
z) le economie nazionali sono sotto attacco speculativo.

Bibliografia essenziale

Sergio Cesaratto, Sei Lezioni di Economia, Diarkos, 2019
Sergio Cesaratto, Sei Lezioni sulla Moneta, Diarkos, 2021
Dominio di Marco D’Eramo – Feltrinelli – 2020
Permanent Record di Edward Snowden – Metropolitan Books – 2019
The Age of Surveillance Capitalism di Shoshana Zuboff – Public Affairs – 2019

 

1.Il capitalismo della porta accanto

Partiamo da un dato di fatto irrefutabile: il capitalismo, ovvero la regola dell’accumulazione della ricchezza, domina il mondo.
Ci siamo così immersi che spesso ce ne scordiamo.
La maggior parte delle persone è inserita in un meccanismo in cui svolge il ruolo di consumatore, lavoratore, risparmiatore, disoccupato, artigiano, professionista, piccolo imprenditore, agricoltore… con l’unico obiettivo di «guadagnare per vivere».

Una minoranza ristretta detiene «il capitale», cioè la ricchezza vera, che nelle sue mani aumenta sempre più, mentre il resto del mondo si impoverisce.
Il modello comportamentale dell’agire per ottenere il massimo di denaro possibile con qualsiasi mezzo è stato così introiettato a livello di cultura di massa che «diventare ricco», se non «super ricco», è l’obiettivo a cui tendere anche per chi ricco non lo sarà mai e della ricchezza altrui è vittima.

Tutto è merce e tutto ha un prezzo: per vivere devo avere un reddito da spendere, possedere denaro, guadagnare… pena l’esclusione, la messa ai margini, la morte.

Il capitalismo è la guerra di tutti contro tutti: il mio guadagno è la tua perdita.
Esiste solo l’individuo, sganciato dalla comunità dei suoi pari, anzi in lotta contro di essi per affermare se stesso.
Laddove c’è capitalismo la redistribuzione della ricchezza è bandita.
Il comunismo, che di codesta redistribuzione avrebbe dovuto farsi carico, è ridotto a vuota ideologia di regime, usata come copertura di facciata per ordinamenti più o meno dittatoriali, capitalistici nella sostanza, anche se non nel nome.
In pratica, i «ricchi», a prescindere dal colore della loro bandiera nazionale, vogliono tutto per sé, con buona pace degli altri.
Su questa iniquità di fondo, risulta impossibile costruire una società armonica e in pace… Eppure, la corrente maggioritaria degli economisti ha elaborato dottrine che spiegano agli «ignoranti» come il capitalismo equivalga alla felicità universale, a patto che vi sia il rispetto di certe regole da parte di tutti.
Se questa osservanza viene meno, il benessere collettivo ci sfugge.
In pratica, se perdiamo il lavoro è colpa nostra.
Se veniamo privati dei diritti è perché il nostro comportamento non è conforme alle previsioni elaborate sui nostri dati.
Se c’è l’inquinamento dipende dal fatto che usiamo troppo l’auto o non facciamo la raccolta differenziata.
Se falliamo è perché abbiamo contratto troppi debiti.
Se i nostri risparmi sono «bruciati» in investimenti fraudolenti avremmo dovuto stare più attenti nella scelta del soggetto a cui affidarli.
Se una banca chiude per insolvenza è dovuto al cattivo operare dei suoi dirigenti.
Se uno stato non può più stampare moneta vuol dire che adotta politiche inadeguate nel contenimento della spesa pubblica…
In estrema sintesi, si può affermare che l’elaborazione teorica maggioritaria in campo economico, seppure insignita di riconoscimenti accademici altisonanti, è complice della messa in moto di un processo che nei suoi esiti ultimi produce:
a) carenza crescente di beni essenziali alla sopravvivenza di miliardi di esseri umani,
b) dissipazione irreversibile dell’equilibrio ambientale necessario alla vita sulla terra, quale fin qui è stata,
c) svuotamento di senso del concetto di democrazia parlamentare rappresentativa,
d) uso continuo della forza armata nella gestione dei conflitti conseguenti all’ineguale distribuzione della ricchezza,
e) messa in atto di sistemi di controllo di massa e di propaganda culturale volti a prevenire il diffondersi di opinioni e di analisi potenzialmente eversive.
Il capitalismo nasce industriale, diventa finanziario ed evolve nella sorveglianza.


2.I più forti possono

Nel 1971, poco prima della fine della guerra in Vietnam, viene abbandonata la regola della convertibilità del dollaro in oro, vigente dal 1944 a seguito degli accordi di Bretton Woods: i dollari circolanti sono sottratti all’obbligo di avere un equivalente nei depositi aurei della Banca Centrale americana.

Attraverso questo atto d’imperio unilaterale, gli Stati Uniti che rimangono, anche se umiliati dai vietcong, la prima superpotenza, in quanto «più forti», dichiarano di potere:
a) stampare biglietti verdi a proprio piacimento o, meglio, emettere titoli di debito pubblico senza limite, il cui rinnovo avverrà in automatico alla scadenza da parte dei sottoscrittori, per la sicurezza intrinseca dell’investimento e la necessità di mantenere stabile il valore dell’unità di conto della ricchezza mondiale;

b) effettuare acquisti a debito potenzialmente illimitati, a partire dalle necessità militari, assurgendo al ruolo di compratori di ultima istanza, vale a dire di consumatori del surplus produttivo mondiale e di garanti della crescita costante del PIL.
Due anni dopo viene superato pure il sistema di cambi fissi in essere fino ad allora e le monete sono lasciate libere di apprezzarsi o di deprezzarsi, a seconda dei rapporti di forza tra le varie economie nazionali subordinate a quella americana.

Detenere dollari equivale al possesso di una moneta sicura per definizione, garantita dal ruolo egemone della superpotenza che la emette, a cui tutte le altre monete sono costrette a parametrarsi: gli scambi internazionali sono in dollari e il dollaro viene acquistato, indebitandosi, nel mercato della moneta da parte di chi ne è sprovvisto, per poter essere dato in contraccambio delle merci importate.
Inoltre, le nazioni che raggiungono una posizione positiva nel saldo commerciale verso gli USA, guadagnando nell’import-export verso quel mercato, useranno il credito così generatosi sia in ambito privato che pubblico sottoscrivendo titoli governativi, ma anche di società di capitali, americani, rinforzando ulteriormente il valore del dollaro.

I più forti, attraverso questo meccanismo, diventano anche «i più ricchi» e la loro moneta diventa oggetto di tesaurizzazione, riserva di valore da accumulare magari nei conti sicuri delle banche svizzere, esportandola di nascosto.
L’inscindibile connubio tra capacità bellica e stabilità della moneta lega di fatto i capitalisti di tutti i continenti alle sorti della potenza egemone, la cui fino ad ora inarrivabile capacità di spesa sarà tanto più rinforzata quanto più la necessità della guerra risulterà in ogni momento ineliminabile.

Guerra che sarà tanto più necessaria quanto più numerosi saranno i nemici del capitale: comunisti, dittatori, terroristi…

Come la storia degli ultimi decenni ci ha mostrato.
E più saranno i conflitti da finanziare più saranno i titoli di debito emessi dal Tesoro americano, per definizione considerati sicuri, e, quindi, comprati da tutti, consentendo ulteriore spesa, specie di tipo bellico, che rafforzerà il ruolo egemone della nazione yankee, in un susseguirsi concatenato e ripetitivo.
La spesa per armamenti è, dunque, coessenziale al capitalismo per tre ragioni:
a) fornisce gli strumenti per realizzare l’appropriazione delle risorse e combattere i nemici del processo di accumulazione capitalista;
b) costituisce ineliminabile componente della domanda complessiva di consumo sia per la sua importanza in termini quantitativi che per la sua strumentalità al mantenimento del mercato americano nella posizione di vertice dell’economia mondiale;
c) giustifica l’emissione illimitata di titoli di debito come collocazione ottimale della liquidità circolante.
Con buona pace di tutte le giustificazioni morali di ordine superiore, legate alla civiltà e ai valori democratici dell’Occidente, che hanno fatto da cornice propagandistica a invasioni, bombardamenti, sostegno a colpi di stato, appoggio a gruppi guerriglieri…

3.Troppi soldi in giro fanno male

La «forza» del dollaro, impostasi in quei primi anni settanta del secolo scorso, trova un limite strutturale ineliminabile nell’inflazione, cioè la qualità della moneta deperisce all’aumentare della sua quantità: sintomo conclamato della «malattia» è l’aumento dei prezzi, perché «chi vende» opera rincari crescenti al crescere della disponibilità di «chi compra».

La liquidità circolante deve fermarsi ad un certo ammontare, pena il deprezzamento del suo valore e, soprattutto, la svalutazione dei crediti relativi ai titoli emessi in quella valuta. Avvenne nel 1973 quello che ci è stato raccontato come uno shock imprevisto e che sarà il primo di una lunga serie: l’impennata repentina delle quotazioni del petrolio, attuata dall’Opec come ritorsione contro l’Occidente per il sostegno fornito a Israele nel conflitto con l’Egitto.

I detentori della fonte energetica fossile, bene più prezioso per la galoppante crescita produttiva mondiale, aumentando di colpo le proprie royalties, reclamano una buona parte della enorme massa di liquidità circolante.
Nasce il concetto di «petrodollaro», cioè ricchezza e geografia degli oleodotti diventano inscindibili (così come le relative guerre).

Nuovi soggetti si aggiungono al novero dei grandi capitalisti mondiali, imponendo una qualche forma di sotto-spartizione del capitale globale, a cui non ci si riesce a opporre per il valore in quel tempo insostituibile della risorsa.
Nel neonato sistema di cambi flessibili, c’è il rischio di un apprezzamento spropositato del dollaro sulle altre monete, che ne verrebbero eccessivamente destabilizzate, mettendo in crisi intere economie e la crescita globale del capitale.

Non potendo né volendo toccare i lucri enormi delle compagnie petrolifere occidentali, che hanno scaricato sui prezzi di vendita i rincari attuati dai paesi OPEC, si decide di agire sul versante della domanda, lanciando l’idea di austerity: viene costruito uno scenario in cui, per eventi eccezionali, i consumi devono rallentare, pena il tracollo delle economie occidentali prive di indipendenza energetica e anche la spesa pubblica deve contrarsi.

Alle masse viene spiegato che l’inflazione è nemica del valore del reddito conseguito, così come delle paghe e dei risparmi di chi lavora.

I sacrifici sono giustificati dalla paura di perdere quel poco che gli anni del boom economico post bellico e le lotte sindacali avevano faticosamente permesso di conquistare.
Austerity significa, infatti, minore domanda aggregata, cioè minore produzione di beni e di servizi, quindi minore reddito prodotto, quindi minore richiesta di mano d’opera, quindi più concorrenza nel mercato del lavoro, quindi ribasso dei salari e meno richiesta di beni di consumo con conseguente riduzione dei prezzi e, da ultimo, un’inflazione riportata nei ranghi. L’obiettivo del capitale è raggiunto attraverso una modalità che realizza esattamente il contrario di quello che era stato promesso a chi era stato folcloristicamente costretto ad andare a piedi o in bicicletta la domenica: la moneta è stabile, l’economia è salva, ma la disoccupazione è aumentata e i salari diminuiti.

Il surplus connesso al petrolio, investito in titoli sia dai vecchi che dai nuovi detentori di dollari, è preservato dalla svalutazione qualitativa della moneta, mentre la diminuzione dei volumi prodotti e quindi la perdita quantitativa degli incassi di vendita è compensata dall’abbassamento del costo del lavoro che alza il margine dei profitti.

In pratica, i lavoratori di tutto il mondo si privano di una parte del loro reddito a favore di chi estrae raffina e commercializza petrolio.
Invece di procedere, attraverso una imposta specifica sui ricavi, alla redistribuzione degli utili extra conseguiti dai distributori/fornitori di energia in ragione dei nuovi prezzi, gli stati traino dell’economia mondiale scaricano sulle popolazioni, vale a dire sui lavoratori, il costo da pagare per evitare il deprezzamento della moneta.

La politica al governo degli stati risponde alle leggi di teorie economiche funzionali agli interessi del capitale, nascondendo il ricorso a soluzioni alternative dietro l’alibi della delega ai tecnici della materia, i quali propongono , ovviamente, «l’unica possibile», utile al capitale.

4.Democrazie morte giovani

Nel 1973, la tragica fine del governo socialista cileno di Salvatore Allende mostra al mondo la fine che fanno i nemici del capitale, capaci solo di «generare inflazione galoppante e disordine sociale», mentre, in realtà, tentavano una riappropriazione comunitaria delle risorse e la messa in atto di una maggiore equità fiscale: la dittatura avvia la privatizzazione completa del sistema economico e silenzia le rivendicazioni salariali dei lavoratori, attraverso un piano di controriforme economiche, ispirato da Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, il quale si reca personalmente in Cile più volte per «consigliare» al meglio la giunta militare sui provvedimenti da adottare.

Ma laddove non possono i militari, può la minaccia dell’inflazione, che consente l’ingresso del capitale nel cuore pulsante delle democrazie occidentali, minando alla base il no taxation without representation su cui si fonda il parlamentarismo moderno.
Lo snodo è costituito dalla ridefinizione del ruolo delle banche centrali: data la priorità assoluta del controllo del valore della moneta, chi se ne occupa deve essere sganciato dalla politica e operare in piena autonomia, seguendo soltanto i dettami della «legge economica», monetarista o liberista o marginalista, che dir si voglia, sganciandosi dalla demagogia irresponsabile di governanti impreparati, magari socialisti.

La Banca Centrale sempre più risponde al sistema creditizio privato (in Italia la privatizzazione avviene nel 1981 in virtù di un semplice scambio di lettere con il Ministero del Tesoro), mentre molti stati, con l’eccezione ineliminabile degli USA, potenza egemone consumatrice di ultima istanza, perdono la potestà di «battere moneta» e così risolvere in autonomia le proprie necessità di spesa.
Ne deriva, ineluttabilmente, che i rappresentanti del popolo riuniti in assemblea e i governi nominati vedono la loro potestà di deliberare limitata alle sole previsioni di bilancio in linea con gli interessi del capitale, onde evitare il rischio di innescare dinamiche potenzialmente inflazionistiche.

Le elezioni politiche, lungi dal significare l’attribuzione di un reale potere di scelta ai cittadini, si rivelano un rituale svuotato di significato, posto che le scelte economiche importanti sono prese in un «altrove» asettico e sfuggente alla masse, lasciando ai governanti eletti, che «ci mettono la faccia», l’onere di disbrigare le faccende minori e di fare da parafulmini ai malcontenti.

Il quarantennio ispirato alle teorie di John Maynard Keynes che, timidamente, aveva provato a dare risposte «espansive», attraverso più spesa pubblica e progressività nell’imposizione fiscale, alle ricorrenti crisi strutturali di sistema, succedutesi a partire da quella del 1929, giunge al capolinea bloccato dai precetti delle «nuove» teorie economiche di stampo cileno. Tutti gli stati sono «invitati», in nome del principio di libertà, a non ingerirsi di economia, cessando di essere «imprenditori» e finanziatori di welfare sociale, vale a dire smettendo di essere garanti di occupazione stabile e di redistribuzione di ricchezza: funzioni entrambe nemiche della massimizzazione dei profitti del capitale.

Lo Stato deve limitarsi a garantire l’ordine pubblico, ovvero a gestire, attraverso l’uso della forza e/o ammortizzatori sociali ad hoc, gli inevitabili conflitti e le diseguaglianze che si inneschino in quello che viene presentato come un percorso di assestamento delle posizioni degli attori interni al mercato prima dell’equilibrio.

Il mercato dunque «sa» e può operare per il meglio unicamente se lasciato «libero»: agli studenti di economia e alla gente comune viene spiegato che il mercato punta all’ottimo, per tutti, sempre e comunque, bisogna crederci.
Se non succede, come dimostra l’impoverimento palese di fasce sempre più ampie di popolazione mondiale, è perché qualche regola non è stata rispettata dai lavoratori dalle imprese o dagli stati nazionali: le regole sono giuste, ma l’applicazione erronea.
Quello che viene taciuto è che il capitalismo è intrinsecamente creatore di ingiustizia distributiva del reddito, in nome della sua stessa ragion d’essere: quello è il suo ottimo.
In questo senso, è vero che il mercato non è «cattivo»: è così e basta.

5.E vivremo felici e contenti

Questo è quanto ci viene raccontato.

Così come nel mercato dei beni tutti sperimentiamo che al salire del prezzo di un bene la sua domanda scende, e viceversa, per poi stabilizzarsi a un livello, diciamo così, intermedio, allo stesso modo dobbiamo arrivare a capire che anche il livello dei salari e il tasso d’interesse dei prestiti del «capitale», equivalente ai risparmi privati in mano alle banche, hanno una oscillazione simile: a richieste di paghe troppo alte non si trova lavoro, con richieste d’interessi troppo elevati i soldi non sono oggetto di domanda a fini di investimento. Basterebbe quindi rimodulare i livelli/tassi relativi per avere tutti un lavoro, cioè reddito da spendere negli acquisti o da risparmiare depositandolo in banca: il capitale troverebbe la «giusta» remunerazione del proprio rischio d’impresa e i fondi necessari per nuovi investimenti produttivi di beni da vendere a prezzi «giusti» sulla base di una sana concorrenza tra produttori.

In questo punto di ottimo, «naturale», ciascuno riceverebbe ciò che gli spetta, tutti i fattori sarebbero occupati e la moneta in circolazione non dovrebbe superare l’ammontare strettamente necessario ad effettuare il totale dei pagamenti, pena lo scatenarsi di dinamiche inflazionistiche che allontanerebbero il sistema dal suo punto di equilibrio.

Apparentemente convincente, in realtà falso.

1) È falso che sia il prezzo l’unica determinante della propensione al consumo, poiché:
a) al diminuire del prezzo di un bene non necessariamente i consumi relativi a quel bene aumentano in quanto i soldi così risparmiati possono essere spesi in beni diversi;
b) al crescere del prezzo di un bene non necessariamente i consumi diminuiscono perché altrimenti verrebbe meno la ragion d’essere del «marketing», cioè delle strategie messe in atto dal capitale per convincerci a spendere diversamente da come potremmo e vorremmo: anzi si può dire che il marketing è l’essenza stessa del capitalismo;
c) la supposta razionalità dell’homo economicus postulata dalla teoria si scontra con realtà di scelte di vita quotidiane dominate dall’istinto e influenzate dall’etica o dalla religione, su cui fa leva, appunto, il marketing;
d) l’utilità/disutilità marginale di un bene in rapporto al decrescere/crescere del prezzo si scontra con il «principio di sazietà»: una volta appagati i bisogni, gli acquisti languono a prescindere da qualsivoglia ribasso o offerta speciale.

2) È falso che il mercato evolva naturalmente verso la piena occupazione e il benessere collettivo, dove l’incontro di domanda e offerta dei fattori produttivi è ottimale, perché il livello dei salari è inversamente proporzionale alla percentuale di profitto del capitale, cioè a quanto i capitalisti vogliono guadagnare. E quanto i capitalisti vogliono guadagnare prescinde, per definizione, da ogni nozione di equità, salvo isolate eccezioni, perché coincide con il massimo possibile, che è raggiungibile (o meglio avvicinabile) unicamente quando si è fuori dalla piena occupazione e si ha a disposizione forza lavoro disoccupata in eccesso, pronta a subentrare a stipendi via via decrescenti rispetto a quelli inizialmente assicurati dalla contrattazione sindacale. Oltre a ciò, la supposta esistenza di un livello salariale di ottimo non può essere dedotta artificiosamente a contrariis sostenendo che se c’è disoccupazione essa può essere eliminata «flessibilizzando» il lavoro: ammesso e non concesso che libertà di licenziare, contratti atipici, sganciamento dagli accordi collettivi di settore e simili consentano maggiore o addirittura completa occupazione, il farvi riferimento indica solo una possibilità arbitraria, e svantaggiosa per i lavoratori, di raggiungimento del pieno impiego, non l’esistenza di un punto naturale di equilibrio soddisfacente per tutti.

3) È falso che esista un «quanto» di profitto del capitale «naturale», perché, oltre alle ragioni esposte nel punto precedente, anche a riuscire ad avere un sistema affidabile per calcolarlo trasformando il lavoro incorporato nei beni in «merci equivalenti» o «beni salario» e quindi in prezzi sommabili agli altri costi di produzione da sottrarsi ai ricavi, permarrebbe intoccata la possibilità per il capitale di adoperarsi attraverso strategie svariate perché esso salga sempre più verso l’alto, a proprio esclusivo beneficio: strategie quali gli accordi di cartello, l’evasione e l’elusione fiscale, l’attività di lobbyng sull’autorità regolatoria, il dumping salariale, la delocalizzazione delle sedi e degli impianti, per non parlare dell’innovazione teconologica, il monopolio di fatto su alcune materie prime, la presa in gestione di servizi pubblici essenziali… sono lì a dimostrarlo, solo per citarne alcune.

 

4) È falso che le regole della concorrenza spingano il mercato verso la «giustizia» della percentuale del loro profitto, cioè impediscano ai capitalisti di aumentarlo senza limiti, perché l’efficacia di una regola dipende o dall’accettazione consensuale dei destinatari o dalla capacità di chi la impone di farla rispettare: assunto che tre secoli di capitalismo ci hanno insegnato che i capitalisti, dopo lo scontro iniziale, puntano all’accordo e alla spartizione del mercato, al di fuori di qualsivoglia ipotesi di concorrenza, ne consegue che ogni tentativo di favorire lo scontro sui prezzi tra produttori a beneficio dei consumatori non può che discendere dall’autorità dello Stato, la quale, si è già visto, è subordinata sempre più alle necessità del capitale e quindi incapace di adottare provvedimenti ad esso contrari, che vadano al di là delle più o meno solenni dichiarazioni di principio.

5) È falso che i redditi non spesi, cioè risparmiati e depositati presso le banche, determino l’ammontare degli investimenti e i relativi tassi d’interesse di prestito, perché:
a) le decisioni di investimento delle imprese dipendono esclusivamente dalla valutazione costi/benefici connessa al rischio d’impresa, in rapporto all’andamento attuale o stimato della domanda di un dato bene o servizio;

b) l’erogazione di credito bancario prescinde dalla disponibilità di adeguata copertura di «fondi prestabili», in quanto, solo successivamente all’erogazione del credito, l’istituto bancario è tenuto a «coprirlo» attraverso il reintegro delle riserve nel proprio conto di riserva e di regolamento presso la banca centrale;

c) i risparmi seguono gli investimenti (e non il contrario), nel senso che è la produzione a generare ricchezza, la quale viene in parte spesa, per acquisti di beni, in parte risparmiata, cioè depositata presso una banca, la quale solo allora la mette in compensazione del finanziamento concesso per far partire la produzione, vale a dire dell’investimento.

6) È falso che esista un tasso d’interesse naturale che pone in equilibrio domanda e offerta di risparmio (la rinuncia alla spesa dei risparmiatori sarebbe uguale alla decisione di spesa degli investitori), perché l’assunto si fonda sul fatto che, in quel punto, l’economia sia nel pieno impiego di tutti i fattori (falsità di cui al precedente punto 2)) e che i risparmi precedano gli investimenti (falsità di cui al precedente punto 5)).

7) È falso che l’inflazione derivi da un «errore», motivato magari dalle pressioni politiche di stati «spendaccioni», della banca centrale nel fissare il tasso d’interesse che regola i rapporti interbancari, su cui sono modulati i tassi d’interesse di prestiti alle imprese e di credito al consumo, decidendone un livello più basso di quello «naturale» e stimolando la domanda totale di beni e di servizi al di là delle potenzialità di risposta del mercato, così che verrebbe stimolata la messa in circolo di troppa moneta impossibile da spendere, perché: a) valgono i motivi di cui al punto precedente 6): pieno impiego e «naturalità» del tasso sono realtà chimeriche; b) la creazione di moneta è appannaggio del sistema creditizio in relazione alla richiesta degli imprenditori di finanziamenti e dei consumatori di credito al consumo quando vi siano le condizioni per un aumento della domanda di beni e di servizi, cioè quando vi sia redistribuzione della ricchezza dal capitale al lavoro che consenta di spendere; in mancanza di redistribuzione dei redditi nessun abbassamento dei tassi potrà stimolare in maniera seria la ripresa economica e quindi l’inflazione non si paleserà.

 

6.Quando l’inflazione c’è

La teoria economica dominante asserisce che la banca centrale opera per mantenere il tasso d’interesse al suo tasso naturale, quello della piena occupazione di tutti i fattori, mentre invece, dato che, come visto, codesto tasso naturale d’interesse è inconoscibile, essa, di fatto, agisce solo ex post, provando a stimolare o a rallentare la possibilità di offerta di moneta da parte di chi la crea veramente, cioè le banche, sulla base del livello dei prezzi riscontrato.

La banca centrale alzerà i tassi quando l’inflazione salirà e li abbasserà in caso contrario: si adopererà, cioè, per ostacolare o agevolare il prestito del denaro, inferendo l’esistenza di una crescita troppo sostenuta nel primo caso e di una stagnazione nel secondo.
In questa ultima ipotesi, abbiamo visto, nel paragrafo precedente, al punto 7), che l’abbassamento sarà efficace solo se coniugato a politiche fiscali redistributive (argomento tabù per la teoria economica dominante al soldo del capitale), mentre nella prima ipotesi la lotta all’inflazione servirà a mascherare l’affossamento delle conquiste salariali eventualmente ottenute dai lavoratori, a seguito di congiunture favorevoli o di lotte sindacali: grazie al rialzo dei tassi, il costo del denaro sarà più alto e la liquidità circolante scemerà, raffreddando la domanda di beni, calmierando i prezzi e… aumentando la disoccupazione (impedendo il raggiungimento della piena occupazione, il capitale non vuole condividere i propri profitti né subire ricatti dai lavoratori).

Di fatto la banca centrale compie l’azione apparentemente paradossale di bloccare la crescita economica, ingenerando una piccola crisi, presentata come evento tecnico inevitabile, di fronte alla quale il numero dei lavoratori disposti a lavorare per paghe più basse aumenta, consentendo al capitale risparmi sul fronte della mano d’opera, i quali vanno a compensare le perdite sulle vendite dovute al calo della domanda di beni, riportando in ordine i conti delle imprese, ma non delle famiglie.

Oltre a questa ben mascherata finalità anti-redistributiva, l’azione della banca centrale contro il rialzo incontrollato dei prezzi trova giustificazione anche nella paura collettiva di perdita del potere d’acquisto nei consumi necessari al vivere quotidiano, come avvenuto spesso in passato.

Disponendo di risorse economiche limitate, i rincari dei generi di prima necessità potrebbero avere ripercussioni serie sulla sopravvivenza di milioni di famiglie, quasi nulle sui grandi detentori di ricchezza.
Trattasi in realtà di una paura, sfruttata e alimentata ad arte dal capitale, solo in minima parte fondata.

Per tre ragioni.
La prima è che, fintanto che contenuta entro certi livelli e associata a un incremento della domanda, cioè a un ciclo economico espansivo, l’inflazione ha un effetto modesto sui redditi, in quanto crescente al pari di questi ultimi.
La seconda è che, a differenza di un recente passato in cui gli acquisti venivano fatti in contante, attualmente, la maggior parte delle spese di un certo rilievo è fatta a debito, accedendo a dei mutui: in questi casi a beneficiare della svalutazione della moneta è il debitore, cioè il lavoratore, a danno del creditore, cioè il capitalista, in ragione della diminuzione del valore reale del debito.

La terza è che la svalutazione del debito è positiva anche per i conti dello stato, laddove esso abbia una situazione di forte indebitamento nei confronti dei mercati, in quanto gli consente un notevole risparmio sul valore reale di restituzione degli interessi, con la possibilità di devolvere in utilità sociale il lucro sottratto al capitale.

Da questi ultimi due rilievi si capisce perché il capitale tema così tanto l’inflazione: perché la sua ricchezza, da monetaria pura, si è trasformata in un sempre maggiore ammontare di titoli di credito, mutando alla radice il concetto stesso di moneta.
Su tutto ciò, ovviamente, la teoria economica dominante tace.

7.La moneta che si trasforma

La moneta è ormai soprattutto titolo, mutuo, obbligazione, carta di pagamento, accredito, addebito, trasferimento da un conto a un altro… in una parola la moneta è sempre più scritturale, cioè virtuale, sganciata, escluso il campo degli illeciti, dal suo supporto fisico tradizionale cartaceo o metallico: sempre più si manifesta la sua natura di riserva di valore, bene oggetto di accumulazione e di scambio in un mercato suo proprio.

Furono proprio la fine del gold standard e l’esplosione degli utili energetici che spinsero i grandi detentori di ricchezza a trovare, per i loro dollari diventati «aurei», impieghi che consentissero ulteriori incrementi patrimoniali; e furono codesti impieghi che contribuirono a far mutare natura alla moneta, trasformandola in… bene invisibile, se non fosse per l’ineliminabile intermediazione bancaria.
Si cominciò a usare i dollari per «prestiti allo sviluppo»: la liquidità giacente nelle casse di «chi ha tanti soldi e non sa dove metterli» diventa, per il tramite bancario, credito agevolato a bassi tassi, per pagare il quale, i «paesi bisognosi» emettono titoli di stato, con rendimenti tanto più alti quanto più le loro economie sono «insicure», comprati dagli stessi detentori di petrodollari, che così incrementano sostanziosamente il lucro del prestito inizialmente fatto. Un’apparente elargizione quasi caritatevole si sublima in investimento redditizio, garantito da assets infrastrutturali o da materie prime e abbinato all’imposizione ricattatoria del controllo degli organismi sovranazionali del capitale (FMI, Banca Mondiale in primis), che impongono politiche economiche di «aggiustamento strutturale» a tutela del creditore, e a svantaggio del debitore.

I titoli emessi, diventano oggetto di compravendita sul mercato finanziario, soggiogando la vita di interi paesi, senza che sia possibile individuare un responsabile diverso da quella fantasmatica entità chiamata «i mercati»… mentre, in realtà, dentro i mercati operano capitalisti in carne ed ossa che puntano ad appropriarsi della ricchezza degli indebitati.

Nel contempo, in un sistema di cambi libero e con la divisa americana strumento di pagamento universalmente accettato, i detentori di grandi quantità di dollari vendono, come già scritto, la loro moneta a chiunque ne necessiti nell’import-export internazionale, con lauti guadagni: l’esistenza di un mercato della moneta parallelo al mercato dei beni è la dimostrazione palese (se ce ne fosse stato ancora bisogno) della natura valoriale, presupposto di accumulazione, del dollaro.

La compravendita di moneta rafforza la natura virtuale della moneta stessa, in quanto: a) il rapporto di cambio tra le monete può essere oggetto di scommessa e ingenerare passaggi patrimoniali tra soggetti per fini meramente speculativi, a prescindere dal commercio di qualsivoglia sottostante; b) la necessità di acquisto di dollari da parte della maggior parte delle economie nazionali, in ragione di un saldo negativo delle rispettive partite correnti, cioè quando oltre al rapporto in perdita tra importazioni ed esportazioni di beni, gli stati hanno redditi e trasferimenti con l’estero in negativo, obbliga quelle stesse economie ad indebitarsi in misura crescente per pareggiare il saldo, attraverso l’emissione di titoli di debito, a rendimento tanto più alto quanto più sono in difficoltà, che le mettono sostanzialmente alla mercé de «i mercati».

L’aumento di numero dei titoli di debito in circolazione, che porta alla progressiva finanziarizzazione del capitale, viene rinforzato dall’invenzione, sempre intorno agli anni ’70 del secolo scorso, dei Mortgage Backed Security (MBS), i quali consistono, sostanzialmente in «pacchetti» di mutui immobiliari, che vengono «cartolarizzati», cioè, venduti come titolo unico da «società veicolo» ad investitori affamati di impieghi diversificati dei loro dollari.

Ad essi seguiranno gli Asset Backed Security, dove il sottostante non è un mutuo, i Collateral Debt Obligations, dove il «pacchetto» contiene titoli di debito ad alto rischio, i Credit Default Swap, vere e proprie assicurazioni/scommesse sulla solvibilità di un titolo…
E con ciò, i volumi degli scambi relativi al bene moneta (una moneta creata dal «click» del computer di una banca) diventarono sempre più un multiplo crescente dell’economia reale.

 

8.La cartolarizzazione anche dei consumi

La finanziarizzazione spinta del capitalismo, oltre a rispondere a una precisa dinamica evolutiva collocata nella storia, trova la sua principale ragion d’essere nella già evidenziata assenza di redistribuzione perequativa dei profitti a vantaggio delle classi lavoratrici.
In mancanza di essa, il capitalismo non finanziario, legato cioè alla produzione di beni materiali e all’erogazione di servizi, va incontro ad una inevitabile crisi da domanda, dato il venir meno dei presupposti per quella crescita costante dei consumi e del PIL che pure è l’obiettivo dichiarato delle teorie economiche maggioritarie.

Invece di rassegnarsi a una stagnazione «tipica di un «capitalismo maturo», la scienza economica dovrebbe spingere il capitale ad operare secondo la logica del c.d. moltiplicatore keynesiano, meccanismo secondo il quale ogni aumento di reddito concesso ai salariati genera ulteriori aumenti di reddito singolarmente decrescenti, la cui somma, però, supera la perdita in cui è incorso il capitale nel concedere l’aumento iniziale, consentendogli anche ulteriori profitti.

Tutti noi ne trarremmo benefici almeno nell’immediato (nel lungo periodo… unica certezza è la fine del pianeta…), mentre parte della liquidità impiegata nel mercato della moneta tornerebbe a essere investita in attività produttive reali, generando ulteriori richieste di manodopera, maggiore reddito e stimolo alla domanda.

Ma la teoria economica dominante non lo prevede, né il capitalismo che ci comanda lo vuole: forse perché non sarebbe più capitalismo o forse perché la componente finanziaria ha assunto un ruolo così preponderante da rendere impossibile un suo ridimensionamento.
Tuttavia, la crescita della domanda di beni primari e secondari è imprescindibile, perché su di essa vengono costruiti i valori base degli indici di borsa, e quindi, dovendo, in qualche modo, essere sostenuta, per similitudine si è applicato ai consumi lo stesso meccanismo di creazione di debito utilizzato per incentivare la crescita dei paesi in difficoltà.

Chi non ha disponibilità immediata, riceve un finanziamento ad hoc e si vincola alla restituzione del tantundem e al pagamento degli interessi; il contratto entrerà, da solo o all’interno di un «pacchetto», nel mercato della moneta generando scommesse collaterali sulla percentuale di solvibilità e rendimenti conseguenti; il consumatore indebitato, per ottemperare agli impegni, in molti casi, sarà disponibile a lavorare di più, anche a paghe inferiori a quella usuale, pur di racimolare l’extra necessario per gli interessi, consentendo risparmi sui costi, e guadagni conseguenti al capitalista.

Il meccanismo funziona fino a che la percentuale degli insolventi rimane sotto una certa soglia: al suo superamento, il sistema implode su se stesso, «scoppia una bolla» e si va in caccia di altre soluzioni, quali:
a) delocalizzazione degli impianti in cerca di bassi salari, assenza di garanzie sindacali e zero vincoli ambientali, per lo più sulla base di accordi bilaterali e multilaterali tra stati;

b) sostituzione della forza lavoro umana con robot o altre forme di intelligenza artificiale;
c) lancio di prodotti sempre nuovi, in ragione dell’obsolescenza programmata di quelli vecchi;
d) ricorso a strumenti quali la cassa integrazione guadagni, il prepensionamento, gli aiuti di stato (agevolazioni/esenzioni fiscali) in caso di calo delle vendite o di rilancio delle attività; e) copertura assicurativa garantita dallo stato (in Italia operata da SACE) per investimenti produttivi all’estero «a rischio»;
f) riconoscimento normativo del margine di profitto minimo sull’erogazione di servizi relativi a beni universali quali l’acqua e la salute.
g) organizzazione di eventi o di fenomeni shock che determinino svolte guidate nelle scelte di consumo o giustifichino limitazioni delle libertà necessarie alla risoluzione dei conflitti innescati dalle diseguaglianze distributive;
h) introduzione del reddito universale o di cittadinanza a beneficio di giovani e inoccupati e con oneri a carico degli stati, i quali dovranno indebitarsi per far fronte alle spese ad esso connesse, cadendo sempre più nella trappola ricattatoria dei vincoli di bilancio monetaristi.

 

9.Dove siamo

Dagli anni settanta alla fine del secolo scorso, si sono susseguite fluttuazioni monetarie, insolvenza e fallimenti di diverse banche, crisi di interi stati, di cui due costretti alla bancarotta (Messico 1982, Argentina 2000), crolli degli indici di borsa…
Con particolare riferimento alle dinamiche relative alle varie economie nazionali «sotto pressione», si è riscontrato che: a) i deficit nei saldi delle partite correnti, spesso vanamente contrastati con l’adozione della parità di cambio della moneta nazionale (debole) con il dollaro (forte), sono stati premessa certa di tracollo; b) il debito ingenerato da quel deficit e alimentato da prestiti speculativi ha portato alla svendita degli assets di valore posseduti e all’imposizione di privatizzazioni e tagli alle spese sociali, sulla base di diktat calati dall’alto, ben lontani da una volontà di soluzione reale delle difficoltà strutturali alla base delle crisi.

In quello stesso torno d’anni, la guerra si è tristemente confermata essere il primo motore di crescita del PIL globale, azionata a comando dalla superpotenza egemone contro lo spauracchio comunista e i dittatori di turno, specie se seduti su ingenti riserve di olio greggio, e, dopo l’11 settembre 2001, contro il terrorismo islamico.

Nel giorno fatale, «in cui l’America è colpita al cuore», il capitalismo diventa altro da sé. Certo, l’implosione delle Torri Gemelle «crollate» per colpa dei terroristi kamikaze, è la giustificazione ideale per l’invasione dell’Afghanistan secondo l’usuale schema di ripartenza dell’economia a seguito di uno shock, ma è anche e soprattutto l’occasione per la presa d’atto dei crescenti rischi d’instabilità, impliciti nel sempre più spinto concentrarsi della ricchezza, che il ricorso alle ricette monetariste non può impedire: il capitalismo deve difendere le proprie conquiste da nemici innumerevoli, che vanno al di là delle minacce della jihad.
La tecnologia informatica applicata a internet è lo strumento perfetto che consente una difesa attiva, l’ottenimento di un profitto e il mascheramento sia dell’una che dell’altro dietro lo schermo dell’astrusità dei codici di funzionamento, la cui conoscenza è appannaggio di pochi. Proprio nel 2001, Google comincia a sfruttare il suo software per tramutare i dati relativi alle ricerche degli utenti in merce vendibile sulle aste on-line per inserzionisti pubblicitari e programma analogo è impiegato, sull’onda emotiva dell’«attentato», dalla NSA americana per il controllo globale dell’umanità attraverso computers e cellulari.
I nostri corpi, i nostri pensieri, le nostre emozioni, la nostra salute, in una parola, la nostra stessa vita diventano merce funzionale alla necessità della guerra e del profitto (che si confermano binomio inscindibile): il capitalismo si insedia subdolamente dentro il world wide web diventando «capitalismo della sorveglianza» e… soppianta tutti gli altri capitalismi. Perché internet è a monte dell’industria, dei servizi, della finanza e… forse anche della guerra; è l’interfaccia quotidiano delle nostre esistenze con il mondo; è il canale ormai insostituibile della comunicazione e del marketing.
Internet, o, meglio, il suo uso distorto offre al capitalismo la possibilità di liberarsi una volta per tutte di quel che resta delle richieste di redistribuzione provenienti dagli esclusi dopo le «manganellate» monetariste: grazie all’acquisizione dei nostri innumerevoli dati personali, che siamo indotti a cedere gratuitamente e senza garanzie (non importa se manipolati o no), noi tutti, semplici cittadini o capi di stato, potremo venire ricattati in ragione del nostro grado di opposizione culturale al sistema, a seconda del nostro livello di rivendicazione di diritti o di reddito; sotto quel ricatto, in quanto giornalisti, ci conformeremo ancora più di quanto non lo siamo già, diventando portavoce acritici delle verità ufficiali del capitale, anche di fronte a notizie palesemente costruite ad arte e funzionali all’induzione di comportamenti consoni. Shock mirati, come attentati e stragi e, soprattutto, la pandemia da SARS-Cov-2 iniziata nel 2020, hanno contribuito negli anni, grazie alla diffusione del terrore, a strutturare e a rafforzare il controllo e la propaganda globali e a costruire l’informatizzazione del reale: il lavoro, gli acquisti, l’intrattenimento, la comunicazione, la burocrazia, i pagamenti si sono spostati sempre più on-line e siccome tutto è interconnesso, chi non è «conforme» potrà venire escluso dal mercato-mondo in qualsiasi momento: vita o morte in un semplice click.
Il sogno di tutti i veri capitalisti, quelli che… mors tua vita mea, giunge a compimento.

10.L’inaspettato che ci aspetta

Se è vero quanto fin qui scritto, il capitalismo sembra avvicinarsi progressivamente, suo inconfessato obiettivo finale, a quell’«orizzonte degli eventi» della concentrazione massima della ricchezza, oltre il quale c’è solo, spiace scriverlo, il buco nero dell’autodistruzione in cui tutto viene risucchiato.

Le ultime due crisi, antecedenti a quella legata alla pandemia da SARS-Cov-2, vale a dire quella dei mutui subprime del 2008 e quella dei debiti sovrani del 2011/12 hanno indicato su quali ambiti residuali il capitale finanziario si sta ancora muovendo, rischiando, a ogni quota di reddito rosicchiata alla controparte, l’umanità, di far saltare il banco: i risparmi della classe media, o di quel che resta di essa, e le ricchezze degli stati nazione, entrambi oggetto di attacco attraverso la trappola debitoria, come già spiegato in precedenza (emblematico il caso della Grecia).

Ne deriverà, da un lato, la progressiva scomparsa del ceto medio, quello che aveva fatto comodo sostenere in chiave anticomunista, depauperato di tutti i suoi risparmi, dall’altro lato, il susseguirsi di assalti speculativi contro gli stati, fino all’esaurimento delle risorse naturali, infrastrutturali, paesaggistiche e artistiche suscettibili di appropriazione.

Avremo, quindi, una umanità divisa: da una parte, un numero sempre più ristretto di super ricchi, circondati da una corte di professionisti utili al funzionamento del sistema, che in ragione delle loro abilità intellettuali nel campo dell’informatica, della finanza, della medicina e della comunicazione riceveranno lauti compensi e benefici («il merito che premia»), e, dall’altra parte, un numero sterminato di cittadini alla mercé delle elargizioni del capitale, tipo reddito di cittadinanza, chiamati a svolgere, sotto il ricatto dei sistemi di controllo, i lavori che le macchine non riescono a fare.

Avremo anche una globalizzazione selvaggia, che lungi, dal puntare all’obiettivo dichiarato dell’integrazione sistemica delle economie intorno a un punto di equilibrio di prezzi interessi e paghe, avrà di mira unicamente la disomogeneità dei mercati, in modo da poter lucrare sui saldi delle partite correnti tra stati e imporre finanziamenti ricattatori finalizzati all’esproprio di quanto posseduto (vendor finance): per pagare il mio deficit commerciale con l’estero, non compensato da redditi o trasferimenti equivalenti in entrata, sarò sempre più (e finché potrò) costretto a indebitarmi e a mettere beni all’asta.

La creazione di un’unica entità sovranazionale, nonostante tutti i sogni utopici o… distopici, sarà resa impossibile, oltre che per la scommessa lucrativa sui saldi dell’import-export, pure per l’ineliminabile necessità della guerra, come primo motore dell’economia mondiale: divisioni religiose ed etniche saranno fomentate ad arte secondo disegni geopolitici che faranno leva sui flussi migratori, i traffici illeciti, l’accesso alle risorse.
Il limite del processo è, ovviamente, dato dalla fisica: proprio dai primi anni settanta del secolo scorso si può far partire l’inizio dello sfruttamento delle risorse del pianeta non compensato da ripristino delle stesse, che anno dopo anno diventa sempre più irreversibile.

E siccome, l’irrazionalità dell’homo economicus è un a priori incontestabile, nonostante la teoria dominante asserisca il contrario, ne consegue che anche i capitalisti ne siano affetti e non riescano ad effettuare scelte che vadano oltre il profitto immediato elaborando logiche di lungo periodo, per esempio, ripetiamo, redistributive in grado di sostenere la domanda. Vincerà, dunque, il principio di avidità, che accecherà l’intelletto e porterà il capitalismo alla lotta intestina e allo scontro violento per spartirsi un paniere di beni necessari alla vita sempre più ristretto, mentre tentativi estremi di trasformare il ripristino ambientale e il recupero ecologico della Terra in business lucrativo suoneranno ipocrita messinscena e possibili solo nel caso, al momento ancora molto al di là da venire, di una effettiva messa in esercizio di sistemi di produzione energetica ad altissimo output e minimo input in grado di recuperare nell’immediato l’eccesso di sfruttamento pregresso e attuale.

La guerra, dunque, riaffermerà la sua ragion d’essere ineliminabile, mentre il capitalismo della sorveglianza vigilerà sulla rovina e il caos: lì sarà il fine corsa a meno di riuscire ad imbarcarci su l’ultimo viaggio per Marte…

 

Conclusive domande?

Riprendendo le fila del discorso sin qui intessuto e senza voler cadere in facili profetismi, spesso smentiti dall’imprevisto, la prima domanda da porsi è: che cosa osservare per capire gli sviluppi del capitalismo?
La geopolitica, ovvero la parabola nella storia della superpotenza americana: ci sono competitori in grado di scalzarla dal suo ruolo egemone? quali teatri di guerra potrebbero indebolirla o addirittura farla precipitare?

La seconda domanda, conseguente alla prima è: quale moneta reale o virtuale potrebbe sostituire il dollaro, nell’eventualità di una bancarotta degli USA?
Data l’organizzazione attuale del capitale, al cui interno gioca un ruolo preponderante il capitalismo della sorveglianza, una nuova moneta universalmente accettata negli scambi internazionali e utilizzabile come riserva di valore potrebbe essere «coniata» solo da chi ha in mano le leve per il funzionamento di internet, cioè solo da chi detiene il vero potere, il potere di controllo globale: un potere ancora più forte di quello delle armi convenzionali che fino ad ora hanno giustificato la primazia del dollaro.

La terza domanda è: dopo la crisi legata alla pandemia da SARS-Cov-2, che cosa dobbiamo aspettarci?
La pandemia, in cui siamo tuttora forzatamente immersi, ha significato fondamentalmente due cose:

a) il blocco dello scoppio di una nuova crisi nei mercati finanziari che, nel 2019, era data per imminente dai grandi fondi d’investimeno e dalla BIS di Basilea («la banca delle banche», l’istituto che controlla e governa il sistema bancario internazionale), secondo lo schema che si è già esaminato a proposito delle politiche monetarie della Banca Centrale: si ingenera una battuta d’arresto nella crescita della domanda aggregata, per evitare il deflagrare del livello dei prezzi e il deprezzamento catastrofico dei titoli di credito; là lo si faceva intervenendo sul tasso d’interesse, qui lo si è attuato grazie ad un evento esogeno di presunta forza maggiore; b) il passaggio definitivo delle nostre vite al digitale, consegnate al dominio del capitalismo della sorveglianza, attraverso il pretesto della tutela sanitaria, che, in ragione di pseudo necessità di salute pubblica, così come declinate da una scienza complice del potere, conduce alla definitiva messa tra parentesi di diritti civili già fortemente indeboliti dal venir meno della rappresentatività parlamentare (cfr. supra n. 4).

Ne deriva che le inevitabili crisi di sistema in cui incorrerà il capitalismo finanziario per l’insostenibilità della pressione debitoria che genera insolvenza e deprezzamento dei titoli (cfr. supra n.10) potranno essere contrastate, oltre che con lo strumento debole della politica monetaria, anche con i potenti mezzi della macchina di controllo globale, la quale imporrà stop e ripartenze all’economia semplicemente intervenendo su qualche nodo nevralgico della rete: le forniture energetiche, le comunicazioni, la disponibilità monetaria…

Nella stessa linea si è mossa la molto sospetta crisi della supply chain nel 2021, ovvero la crisi da approvvigionamento per carenza di offerta di materie prime e componenti base, specie elettronici, la quale è sembrata chiaramente creata ad arte in senso anticiclico.
La quarta domanda è: il paese in cui vivo, cioè la sua economia, è sotto attacco da parte de «i mercati»?

Per capirlo è necessario esaminare la pressione esercitata a livello mass-mediatico sulla consistenza e la gravosità del debito pubblico, l’ammontare dei risparmi privati ancora sfuggiti alla trappola debitoria, cioè quanto i conti delle famiglie siano in ordine, il senso di politiche pubbliche volte a indebolire, attraverso blocchi a ripetizione, l’iniziativa economica privata, specie se strutturata in maniera diffusa e non aggregata, la consistenza del patrimonio naturale e artistico suscettibile di essere messo all’asta in caso di fallimento, il peso delle garanzie ipotecarie che la proprietà immobiliare e fondiaria sia in grado di offrire nel caso di accensione di linee di credito a suo favore, che saranno subdolamente incentivate…

Al ricorrere di una o più di queste circostanze sfavorevoli, l’attacco prima o poi partirà.
Inaspettato? Come sempre, per chi crede alla narrazione dominante.

 

Il narratore minorante (gennaio 2022)

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