Il terrore che viene da lontano

Pan American

 

(Note de Il narratore minorante su Il nudo e il morto di Norman Mailer – febbraio 2022)

Rileggendo il romanzo capolavoro di Norman Mailer Il nudo e il morto, scritto nel 1949, si ha la chiara dimostrazione di una preveggenza profetica, il saper leggere nei fatti tragici del proprio tempo il divenire futuro della Storia.

Il romanzo, ambientato durante la seconda guerra mondiale, è il racconto delle vite di alcuni soldati americani intrappolati in una campagna di assedio sul fronte giapponese in un’isola dell’Oceano Pacifico.
È un affresco potente su «quello che verrà dopo»: i militari al fronte inseguono un domani, che riscatti il presente di sofferenza e di morte, in cui il desiderio innato di sentimenti puri combatte con l’attrattiva stereotipata della ricchezza facile, del sesso e dello sballo a tutti i costi.
L’affermazione di sé a danno degli altri è il messaggio che la guerra riprende dalla società del profitto e a questa lo restituisce potenziato, annichilendo l’ineliminabile ricerca del senso della propria vita nella mistificante contabilità, in ricavi e perdite, di ciò che si deve fare per avere «successo».
L’«essere nel mondo», in un mondo dominato dal capitalismo, si riduce a una scommessa sul proprio riuscire a vincere il gioco del «guadagno facile e poi mi sistemo», in cui, in realtà, la felicità inseguita non esiste, in quanto basata su valori effimeri sganciati dall’intima essenza umana: anche i pochissimi che, pur partendo svantaggiati dalla povertà o dall’etnia o dalla cultura, riescono, in qualche modo, ad affermarsi scoprono presto l’ingannevole inconsistenza del «sogno americano».

Un sogno, vuoto per le masse, ma follemente autoappagante per chi mefistofelicamente detiene il potere, come emerge dal dialogo che intercorre tra il generale Cummings e il tenente Hearn in due passaggi della vicenda: parole che ci fanno capire, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, come l’attuale situazione di dominio globale del capitale abbia radici lontane e il suo «schema» di funzionamento intrinsecamente violento e oppressivo sia nei decenni rimasto immutato, nonostante tutti i tentativi di mascheramento e di mistificazione scientemente messi in atto.

 

La premessa di fondo del dialogo tra i due è che la guerra è il paradigma di base su cui è modellata la società: il capitalismo è per sua natura conflittuale e premia i vincenti, qualsiasi siano stati il sacrificio inflitto agli sconfitti e le devastazioni provocate.
Dice il generale:

«Una nazione combatte bene in rapporto alla quantità di uomini e di materiale di cui dispone… (e) il singolo soldato di quell’esercito è tanto miglior soldato quanto più basso è stato il suo tenore di vita» .

E poi ancora:

«… per far funzionare un esercito occorre che ogni uomo viva in un’atmosfera di terrore… (e)…. l’esercito funziona bene quando ognuno ha paura di chi gli sta sopra e disprezza il proprio subordinato.»

Su questi principi è modellato l’esercito della superpotenza egemone, a cui tutti siamo sottomessi perché, vincendo la Seconda Guerra Mondiale, l’America ha assunto il compito di garantire l’ordinato procedere del processo di accumulazione capitalista, annientandone ogni nemico interno o esterno.

Su questi principi è costruita la società americana, perché sono essi che la rendono ricca e prospera, apparentemente appagata: è grazie alla supremazia militare che il dollaro è la moneta forte per eccellenza, insuperabile segno di ricchezza, incontrastata riserva di valore dell’economia mondiale.

Su questi principi sono progettate le nostre vite, perché appartenenti indissolubilmente a quel sistema al cui vertice c’è il capitalismo a stelle e strisce, il dio dollaro a cui i nostri desideri intimi si sacrificano, le economie nazionali si immolano.

Perché stupirsi, dunque, del terrore indotto in cui siamo immersi, dello scontro astioso degli uni contro gli altri a cui siamo invogliati, della povertà dilagante verso cui siamo risospinti dopo che il benessere elargito in chiave anticomunista non ha più ragion di essere?

Una logica militare ci governa, la logica dell’esercito vincente, e tutto ad essa si conforma, economia e sanità, politica e religione, etica e cultura.

In un altro dialogo, il generale spiega che:

«… Storicamente, lo scopo di questa guerra è quello di tramutare il potenziale dell’America in energia cinetica… Come energia cinetica un paese è organizzazione, sforzo coordinato… fascismo… c’è un processo di osmosi… L’America sta facendo suo questo sogno (della Germania nazista), lo sta assimilando… (perché)… la più profonda necessità dell’uomo è l’onnipotenza… (infatti) l’unico modo per ottenere la necessaria condizione di terrore e di obbedienza è di fare del potere una cosa immane e sproporzionata.»

Il tenente risponde disperato al generale:

«E dove mi trovo, io, in questo schema?»

Già, dove ci troviamo noi, in questo schema di fascismo non dichiarato, ma reale?

Nulla di quanto accade oggi, per quanto inaspettato possa apparire, succede per caso, ma è conseguenza logica e inevitabile di un procedere concatenato di eventi storici.
Siamo anche noi nello «schema» del terrore, a meno di provare a uscirne facendo sentire l’altra persona accolta e benvoluta, come la figlia alla madre, l’amante all’amata…

Perché, come disse Osho, la paura, e non l’odio, è il contrario dell’amore.
Nonostante tutti i «generali cummings» dei nostri giorni e i loro fucili puntati verso di noi, che quella paura fomentano di continuo.

Il narratore minorante

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